Paolo
Garuti O.P.
Convegno "Verso il terzo millennio"
(Cagliari, 20-29 gennaio 1996)
Due questioni iniziali sono quasi di prammatica quando si affronta un testo antico. La seconda è un pò più raffinata e dipende in buona parte dalla risposta che si dà alla prima. Di fronte ad ogni libro mi devo chiedere che cosa intende trasmettere e che tipo di libro è quello che ho in mano. Un esempio che faccio ai miei studenti: se leggo un libro e, per il fatto che ha la copertina gialla, decido che è un romanzo poliziesco, mentre in realtà si tratta delle Pagine gialle, la mia conclusione sarà: "I personaggi non mancano, hanno anche dei numeri, ma la trama è un pò deboluccia". Si tratta sempre di affrontare un libro per come il libro vuole presentarsi.
La seconda domanda è "Apocalisse di Giovanni, come l'abbiamo noi oggi, è frutto di prima stesura o non è piuttosto già una riedizione, la rielaborazione di un testo precedente?".
Questa domanda nasce in parte dall'esperienza del lavoro sui testi del Nuovo Testamento. In un'epoca in cui non esisteva il copyright, il diritto d'autore su un testo stabilito e presentato dalla stampa, in un'epoca in cui non esisteva l'idea dello scritto se non in quanto veicolo di verità, con grande facilità i libri venivano riletti e rielaborati. Riscritti.
Quanto alla prima domanda: che tipo di libro è l'Apocalisse di Giovanni, la risposta non è difficilissima perché è Giovanni stesso (per convenzione chiamerò Giovanni l'autore) che lo denunzia nell'incipit del libro. "Rivelazione di Gesù Cristo che Dio gli diede per rendere noto ai suoi servi le cose che devono presto accadere e che egli manifestò inviando il suo angelo al suo servo Giovanni. Questi attesta la parola di Dio e la testimonianza di Gesù Cristo riferendo le cose che ha visto. Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di queste profezie e mettono in pratica le cose che vi sono scritte, perché il tempo è vicino." Questi primissimi versetti, per così dire, costituiscono la copertina del libro. Notate subito il versetto 3: "beato chi legge e beati coloro che ascoltano la parole di questa profezia". Se ci fermassimo al "beato chi legge" dovremmo dire: "si tratta di un libro fatto per essere letto in poltrona, con un bicchiere di whisky, una luce soffusa e una buona pipa". Ma immediatamente continua "beati coloro che ascoltano": è quindi un libro pensato per la lettura pubblica. A maggior ragione in una società come quella antica in cui non tutti sapevano leggere: questo già ci dà il tono del libro per come vuole autopresentarsi. È un libro fatto per essere ascoltato prima che essere letto, e i tempi dell'ascolto non sono i tempi della lettura. Quando p. Alberto avrà la bontà di darmi il testo di quello che vi sto dicendo, mi verrà da piangere perché io non scrivo come parlo e se adesso vi leggessi un testo scritto il nostro rapportarci sarebbe molto diverso da quello che si sta instaurando, per il fatto che non ho un testo sotto gli occhi.
E poi c'è anche quell'altra parolina: "beato chi": è una benedizione e dice non solo lettura pubblica, ma anche lettura in un ambito religioso. Il ruolo del lettore, che immediatamente dopo diventerà Giovanni, è il ruolo dell'attore che fa un servizio quasi liturgico. Nelle Messe solenni quando c'è un diacono, questi s'inchina prima del Vangelo davanti al celebrante che gli dà la benedizione perché possa degnamente leggere. Nel nostro testo troviamo una formula di benedizione per il lettore, quindi: lettura pubblica e liturgica, il che significa, nel concreto, lettura dialogica con il gruppo di ascolto, come lo chiama p. Vanni. Ma, un gruppo o un individuo ascoltano e recepiscono secondo i propri tempi interiori, secondo un loro ritmo di apprendimento, secondo le loro capacità di percezione anche fisiche, uditive (io ora sto cercando di calcare sulle finali perché mi hanno detto che quando termino una frase la mia voce si perde). Attraverso questo tipo di percezione ricreano il libro in loro stessi dovendo però stare al ritmo di chi legge. Tutti noi quando leggiamo un testo ci fermiamo su una riga piuttosto che su un'altra, ci lasciamo guidare dalle nostre emozioni, per cui, ad esempio, se siamo innamorati, una lunga descrizione di una pianura piena di fiori non c'interessa niente, andiamo veloci; poi nel momento in cui ci si ferma anche per poche righe sulla storia affettiva del protagonista, impieghiamo mezz'ora a leggere quelle poche parole. Ma, nel caso del nostro libro, si tratta di giocare anche con la velocità del lettore, che si aggiunge al tempo dell'ascoltatore e in parte lo determina. Questo dialogo con un gruppo che si riunisce per ascoltare una parola, dà, come vi dicevo, una risposta alla prima domanda. In effetti, vedremo analizzando la struttura di Apocalisse che alcune indicazioni ci sono date dal modo in cui i capitoli si sviluppano: dovremmo dirci che, se l'autore ha scritto questo libro di getto o comunque in un unico lasso di tempo, ad un certo punto ha perso il filo. In realtà non è così: è che il libro letto, riletto, reinterpretato, rigiocato, recitato in un ambito liturgico, ha finito col crescere perché la comunità aggiungeva elementi man mano che il libro prendeva interesse, accludendo nuovi spezzoni. Ma c'è un'altra conseguenza molto più importante per noi, oggi: l'Apocalisse attribuita a Giovanni deve al suo carattere liturgico e dialogico anche la formazione di quel linguaggio che noi chiamiamo apocalittico, quello che ci colpisce di più. Il tempo dell'ascoltatore e il tempo del lettore essendo diversi, il linguaggio di Apocalisse è un linguaggio quasi forzatamente immaginifico. Quello che gli esperti chiamano simbolismo a struttura discontinua è un fenomeno per il quale una serie d'immagini, molte delle quali tradizionali, provenendo dai profeti, sono accumulate intorno ad un centro che può essere costituito da un'idea o da un messaggio, in maniera per noi illogica. È ciò che ha fatto impazzire i pittori che hanno cercato di raffigurare le scene dell'Apocalisse. Non è possibile riprodurle integralmente, ci sono troppi simboli e tra loro discordanti. Prendete ad esempio i vegliardi dei primi capitoli: innanzitutto, sono dei vegliardi, poi, con una mano suonano la cetra, con l'altra tengono una coppa di profumi, nel frattempo cantano Alleluia, poi buttano la corona d'oro che hanno in testa ai piedi dell'uomo seduto sul trono, e poi s'inchinano, sempre con l'arpa, con la coppa dei profumi, ecc. È una serie d'immagini accumulate e proposte all'ascoltatore a velocità incalzante, in modo che questi, a sua volta, ne operi una selezione e crei un concetto. In altri termini, è come quando dò a un bambino dei cubi colorati con differenti combinazioni possibili ed è il bambino che si diverte poi a creare la sua costruzione. Nella traduzione abbiamo perso sia la sonorità che le sgrammaticature del testo. Apocalisse è un libro molto sgrammaticato, farebbe inorridire qualunque professore di ginnasio, ci sono degli apò che reggono il nominativo invece che il genitivo. Ma volutamente: è un libro che gioca sui tempi e sulle possibilità di percezione e di ricreazione del testo da parte dell'ascoltatore. È il grande fascino di Apocalisse. Non è un libro fatto per ragionarci sopra, non è costituito da una serie di sillogismi, è un libro scritto per causare delle impressioni. Il grande strumento di questo gioco, vi dicevo, è il simbolismo. Il simbolismo che da sempre è una delle caratteristiche del linguaggio apocalittico (e profetico), ma che nella storia della letteratura religiosa risulta essere uno dei grandi strumenti. Tutti sappiamo che esistono simboli naturali e simboli artificiali. Un simbolo naturale è il fumo: se vedo del fumo suppongo che c'è qualcosa che brucia. Un simbolo artificiale sono i segnali stradali. Per convenzione, all'interno di un gruppo o di una cultura, si determina che una X nera su un triangolo bianco bordato di rosso voglia dire una determinata cosa; non c'è un collegamento naturale, se non vagamente ideografico. Nel caso di Apocalisse, simboli naturali e simboli culturali o artificiali sono in buona parte veicolati dall'Antico Testamento, ma in egual parte anche tratti dalla cultura anatolico-ellenistica (greca ma influenzata da tutta un'imagerie di origine non greca, quale sappiamo corrente nelle città lungo la costa dell'Asia Minore). Questi simboli sono riutilizzati da Apocalisse, ma vengono rilanciati all'uditore in modo che questi li ricostruisca nel suo mondo immaginario. È un linguaggio forte ed evocativo, ma anche estremamente pericoloso: il simbolo porta con sé una serie di messaggi che non sempre l'autore può direttamente controllare (quelli che potremmo chiamare messaggi subliminali).
Vediamo ora il codice letterario e simbolico di Apocalisse. Ci sono due elementi che sono diventati sinonimo di linguaggio apocalittico (assieme alle idee di futuro e distruzione): il simbolismo cosmologico e quello chiamato teriomorfo. Il simbolismo cosmologico è legato al sole, alla luna, alle stelle, all'ambiente, all'habitat in cui l'uomo si trova e che per l'antico aveva un peso molto differente da quello che può avere per noi, che siamo abituati ad un universo deserto. Come già dicevo ieri sera, queste sfere, che ordinatamente sempre con lo stesso ritmo ruotano e ripresentano l'astro al momento predeterminato, erano, al contempo, segno della perfezione del creato ed origine di paura. Il piccolo essere umano condannato invece al caso, alla contingenza, all'imprevedibile, alla malattia, all'incidente e, soprattutto, ai fenomeni atmosferici, quelli che erano dominati, direbbe san Paolo, dagli spiriti dell'aria, vi trovava fonte di sgomento. Quelle cose che invece regolari non sono, la tempesta che distrugge il raccolto, la siccità di sei o sette anni che impedisce la vita, son ben diverse dalla regolarità dell'Orsa maggiore. Dominato da queste forze, l'antico viveva un rapporto di paura e di venerazione col cosmo che lo circondava: una delle caratteristiche della simbologia di Apocalisse è lo sconvolgimento graduale, ma progressivo, della macchina cosmica, dell'immenso ordine che tale è solo apparentemente. Simbolismo teriomorfo: gli animali composti di parti di altri animali (eredità, anch'essa, non solo dell'Antico Testamento, ma di tutta la cultura mitologica dell'antichità). L'animale, che per l'antico era il compagno della vita, ma nello stesso tempo latore di un mistero difficilmente coglibile nella sua pienezza, attraverso la composizione di parti che hanno già un loro valore simbolico (il petto, le zampe, la criniera, il muso), diventa cifra del trascendente. L'antico era molto più abituato a vivere con l'animale di quanto noi si sia oggi: addirittura, per uccidere un animale ci voleva la giustificazione del sacrificio ed era molto raro, almeno per la grande maggioranza della popolazione, mangiare carne. L'animale è compagno del lavoro e vicino nel cammino dell'esistenza (il bambino, spesso, cresceva e giocava con gli animali), ma è una cifra misteriosa; l'animale è imprevedibile, ha un'altra logica e molto spesso può diventare una forza pericolosa. Ecco che allora, raffigurando dei mostri (che mostri non sono, sono semplicemente la combinazione di parti con proprio valore simbolico), si vuole esprimere tutto ciò che è indispensabile per la vita, ma misterioso, lontano. Per questo, di volta in volta, l'animale può essere simbolo del demoniaco (soprattutto il rettile, che buon compagno non è), del pericolo, come può essere simbolo del Cristo (l'Agnello) o dello Spirito (i quattro animali di cui parla l'inizio di Apocalisse, che sono in seguito diventati simboli dei quattro Evangelisti). Essenziale nel tessuto di Apocalisse, che fra tutti i testi della letteratura apocalittica è quello che più insiste su di esso, un terzo tipo di simbolismo: il cosiddetto simbolismo cromatico. I colori hanno una capacità immediata di colpire la fantasia, e l'autore di Apocalisse ne usa tanti, spesso in un'accumulazione, in una enumerazione caotica, che non ha di per sé un significato se non di descrizione del prezioso o della maestà. In alcuni casi, però, i colori sono indicativi di situazioni antropologiche o teologiche. Il rosso (fuoco, sangue) indica la violenza, il nero è la morte, l'oro è il colore di Dio, il bianco quello della risurrezione.
In questo erede di tutta la tradizione apocalittica, l'autore di Apocalisse fa largo uso del simbolismo numerico. Il numero per l'antico è qualcosa di più che un semplice segno tracciato sulla carta, utile a fare i conti a fine mese. Il numero manifesta la logica intima del creato, l'armonia delle cose. I libri apocalittici, proprio per presentare la storia come già decisa, già contata e stabilita in ritmi, utilizzano il numero, la nota musicale della storia. Per l'autore di Apocalisse: uno è il numero di Dio; due è un moltiplicatore semplicemente di potenza; tre è la perfezione divina; quattro la perfezione della terra; tre più quattro è la perfezione della terra e la perfezione del cielo, uguale alla perfezione totale; cinque è il simbolo del popolo d'Israele, dei libri della Torah; sette è la perfezione divina; se a sette togliete uno, è la perfezione demoniaca, il sei; l'otto non ha grande interesse per lui; nove neppure; è molto importante il dieci o i multipli di dieci (cento, mille) che in Apocalisse sono una moltitudine, ma limitata. I Testimoni di Geova si accaniscono sul capitolo settimo perché i salvati sono centoquarantaquattromila. Quello, invece, che vuole dire l'autore è: dodici, il numero delle tribù d'Israele (e le enumera: "della tribù di Neftali, della tribù di Dan, della tribù di Asher, della tribù di Giuda ecc. dodicimila, dodicimila, dodicimila") moltiplicato per dodici, segno di pienezza e infine moltiplicato per mille.
Sono tutti i salvati? No, proprio perché ne moltiplica il numero per mille sono tanti, ma non è finita lì. Infatti il versetto seguente dirà: "e dopo di loro vidi una folla immensa di ogni razza, lingua popolo e nazione, che non poteva essere contata". In un sistema decimale la base dieci, cento, mille è ciò che serve per contare, e ciò che può essere contato è limitato. Così avremo l'Agnello, simbolo di Cristo, che ha sette corna: sette è il numero della perfezione di Dio; la Bestia, simbolo del demoniaco, ha dieci corna: allora, è più forte se ha dieci corna! Invece no, è più debole perché ne ha solo dieci, non sette, e dieci è qualcosa che si può contare. Come vedete si tratta di un linguaggio composto di metafore fortemente lessicalizzate all'interno di un gruppo; a noi sembrano simboli astrusi ma se uno ci si mette con un poco di pazienza, entra in breve nel codice perché è estremamente ripetitivo. Quello che sciocca in Apocalisse non sono tanto i simboli che usa (vengono quasi tutti da un deposito letterario tradizionale), ma la loro combinazione.
Apocalisse gioca molto sul simbolismo antropologico. Giovanni è estremamente attento alle realtà umane. Eredita dall'Antico Testamento la personificazione del popolo in figura femminile: se questi tradisce sarà prostituta, se invece è fedele, sarà sposa. Tutto questo era già in Osea, Geremia, ecc. Giovanni rielabora un luogo comune, ma completandolo, per esempio, con la descrizione dei vestiti, dei loro colori, degli atteggiamenti fisici: la prostituta seduta (segno di potere), vestita di rosso (segno di violenza), contrapposta alla sposa vestita di bianco, di lino splendente (segno della resurrezione di Cristo), che scende dal cielo.
Per noi che leggiamo oggi, soprattutto quando si rispetta il genere letterario di Apocalisse e se ne fa una lettura pubblica, cosa significa tutto ciò? Credo che alcuni simboli mantengano la loro forza (un pò perché hanno un'origine naturale, un pò perché anche noi siamo eredi della cultura che in fondo ha prodotto questi testi, e un pò perché da centinaia d'anni essi vengono letti e commentati), ma che c'invitino a un gioco d'interpretazione e quindi a ridare contenuto a queste immagini: è il modo in cui Apocalisse crea una sua filosofia della storia. Filosofia della storia è trovare delle costanti nel mutamento continuo dei giochi possibili all'interno della vicenda umana. "De particularibus non est scientia" diceva già l'antica scuola di origine aristotelica. Non si può costruire una scienza su cose che non si ripetono, però lo sforzo dell'uomo è sempre trovare delle costanti, per poter credere che se una cosa è successa in quel dato modo, risuccederà: che sia l'idea vichiana o che sia l'ultimo testo di economia politica, in fondo il nostro sogno è sempre di avere degli schemi che ci permettono di capire la realtà e possibilmente di prevederla. La comunità che esprime Apocalisse considera la sua realtà: impero romano, persecuzione, piccolo gruppo cristiano, martirio di alcuni, tuttavia non la descrive come farebbe un cronista, ma in uno spazio atemporale, attraverso simboli. Ciò permette a noi di rileggere la nostra situazione usando le stesse costanti simboliche. Ma è anche la grande tentazione: applicare i simboli troppo velocemente. Quanti liberticoli di propaganda, nel dragone rosso, simbolo del demoniaco, con sette teste, non vedevano il patto di Varsavia. Adesso, finito il patto di Varsavia è finito il demoniaco? Allora stiamo bene, siamo in paradiso! Pare che non sia vero. Attenzione a certe facili applicazioni e attualizzazioni. Il simbolo rischia di portarci su quella via, ma se, da un lato, ci invita a utilizzare le stesse costanti per leggere la nostra realtà in chiave teologica (o filosofica, se preferite), dall'altro, non ci deve permettere attualizzazioni troppo facili, perché se no finiamo con lo svuotare quella che è l'idea stessa dell'apocalittico: portare la mia storia di oggi a un livello tale d'interpretazione che possa essere un quadro del mistero di ogni storia umana.
Entriamo così nella struttura di Apocalisse. Se leggete Apocalisse in maniera continuata (non accontentandovi dei brani stagliuzzati opportunamente per rientrare nelle sagome del nostro immaginario religioso), vi accorgete che una dominante della struttura del libro sono i settenari o i ternari. All'inizio, sette lettere alle Chiese (capitoli dal due al tre); segue, a partire dal capitolo sesto, dopo una seconda visione inaugurale, le serie dei sette sigilli. Poi, se scorrete ancora, abbiamo, a partire dal capitolo otto, la serie delle sette trombe; col suonare della settima tromba al capitolo undici, la serie dei tre segni: la donna, il drago e la bestia. Questa è una parte molto perturbata, probabilmente appartiene ad altra scrittura di Apocalisse, ma, dopo la donna e il drago e le bestie, leggiamo i tre guai e, nel capitolo quindicesimo, la serie delle sette coppe. Questa, vi dicevo è una caratteristica abbastanza comune dei testi apocalittici; serie numeriche in progressione temporale che vogliono solo dare l'idea di un qualcosa oramai tutto deciso; quanto Apocalisse di Giovanni denuncia con l'immagine del libro oramai tutto scritto: un rotolo di pergamena vergato all'interno e all'esterno, dove non è più possibile aggiungere neanche una minima lettera. Ma, a parte il primo settenario, le lettere alle sette Chiese, che è come un libro a sé, indipendente, preceduto da una visione inaugurale - come poi un'altra visione, quella dell'Agnello che riceve il libro, inaugurerà le altre serie settenarie o ternarie - tutti questi settenari presentano una caratteristica che è una delle grandi cifre per interpretare Apocalisse: sono settenari aperti, l'ultimo elemento di ogni settenario ingloba le serie successive. Apocalisse è un libro scritto a Matrioska, o pesce grosso che mangia pesce piccolo, che mangia pesce più piccolo e così via. Questa stessa struttura ci dice che l'autore non vuole portarci su una linea retta verso la fine dei tempi, ma all'interno dei tempi. L'invito che l'autore di Apocalisse sembra fare è: "adesso vi racconto cosa succederà da oggi fino alla fine dei tempi"; ma la sua reale intenzione è raccontarci da oggi quello che c'è sotto l'oggi, quale è il fulcro attorno a cui ruota lo svilupparsi delle vicende umane. Riprendiamo i nostri settenari: all'inizio, dopo la visione introduttiva dei capitoli quattro e cinque, troviamo il famoso settenario dei sigilli che tanto ha impressionato Bergman, ma il settimo sigillo si trova all'inizio del capitolo otto: "Quando l'Agnello aprì il settimo sigillo si fece silenzio in cielo per circa mezz'ora: vidi che ai sette angeli ritti davanti a Dio furono date sette trombe". Mentre i primi quattro sigilli sono cavalieri contraddistinti da colori, voci e azioni, quando si apre l'ultimo sigillo si dovrebbe affermare: "Oh, finalmente il libro è aperto, possiamo leggere tutto, possiamo capire tutto". Invece, inizia un'altra serie. Lo stesso potete dire alla fine del settenario delle trombe (siamo al capitolo undici, versetto quattordici). Al settenario delle trombe si sovrappongono i tre guai "così passa il secondo guai, ecco viene subito il terzo guai, il settimo angelo suonò la tromba e nel cielo echeggiarono voci potenti". Una scena liturgica e inizia, col capitolo dodici, la serie dei tre segni. Il settenario dei sigilli, di fatto, non è che la superficie: ci fa vedere ancora solo quelle cose che noi possiamo vedere. Quali? Il primo cavaliere: "quando l'Agnello sciolse il primo dei sette sigilli; vidi e udii il primo dei quattro esseri viventi che gridava con voce di tuono: "vieni!" ed ecco mi apparve un cavallo bianco e colui che lo cavalcava aveva un arco. Gli fu data una corona e uscì vittorioso e per vincere ancora". Il primo sigillo contiene già la risoluzione di tutto, però non ce lo dice. È una forza in campo, è come quando si suona l'inno nazionale prima di una partita: vediamo quali sono le due squadre, chi è l'arbitro. Questo cavaliere bianco lo ritroveremo nello scioglimento finale del dramma, al capitolo diciannove, e finalmente sapremo chi è: "Poi vidi i cieli aperti e vidi un cavallo bianco; colui che lo cavalca si chiama fedele e verace, egli giudica e combatte con giustizia; i suoi occhi sono come una fiamma di fuoco". Vedete, giudica e combatte; prima aveva detto "uscì vincitore e per vincere ancora". "Ha sul suo capo molti diademi, porta scritto un nome che nessuno conosce all'infuori di lui. È avvolto in un mantello intriso di sangue e (visto che nessuno conosce il suo nome, adesso lo diciamo) il suo nome è Verbo di Dio". È un attore della storia che all'inizio viene presentato in maniera anonima, ma poi tornerà alla fine per essere il grande vincitore del rodeo. Al principio, i cavalli entrano solo in pista. Notate quel "vittorioso" e "per vincere ancora": è il segno della risurrezione e della vittoria sulla morte, ma destinata a diventare anche una vittoria all'interno della storia umana. "Quando l'Agnello aprì il secondo sigillo, udii un secondo essere vivente che gridava "vieni!" (la traduzione italiana li chiama esseri viventi per rispetto: zòa in greco significa semplicemente animali, ma siccome sono diventati simboli degli Evangelisti, chiamarli animali non pare conveniente) allora uscì un altro cavallo rosso fuoco; colui che lo cavalcava ebbe il potere di togliere la pace dalla terra perché si sgozzassero a vicenda e gli fu consegnata una grande spada (è il simbolo della guerra). Quando l'Agnello aprì il terzo sigillo, udii un altro essere vivente che gridava: "vieni!". Ed ecco: mi apparve un cavallo nero e colui che lo cavalcava aveva una bilancia in mano, e udii gridare una voce in mezzo ai quattro esseri viventi: "una misura di grano per un danaro e tre misure d'orzo per un danaro, olio e vino non saranno sprecati!"": è la carestia. In tempo di crisi, la guerra, la carestia, la fame, la mancanza dei mezzi di sopravvivenza, sono le cose che vediamo per prime; invece qui vengono schierate insieme ad altri attori della storia. "Quando l'Agnello aprì il quarto sigillo, udii la voce del quarto essere vivente che diceva: "vieni!". Ed ecco mi apparve un cavallo verde, colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l'Ade. Fu dato loro potere sopra la quarta parte della terra per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra". Quest'altro cavaliere, l'ultimo, quello più impressionante, su un cavallo verdastro. Sembra un personaggio tra i tanti, siamo ancora sulla superficie della storia. Ma torniamo alla fine di Apocalisse, dove scopriremo che mischiati fra guerre, sciagure e altri personaggi, se è presente il cavaliere col cavallo bianco, ritornano anche questi due protagonisti. Andiamo al capitolo venti, versetto undici e seguenti: "vidi poi un grande trono bianco e colui che sedeva su di esso, dalla sua presenza erano scomparsi la terra e il cielo senza lasciare traccia di sé". Siamo oramai già dopo il regno millenario dei giusti, siamo al dramma finale. "Poi vidi i morti, grandi e piccoli, ritti davanti al trono, furono aperti dei libri, fu aperto anche un altro libro, quello della vita: i morti vennero giudicati in base a ciò che era scritto in quei libri, ciascuno secondo le sue opere; il mare restituì i morti che esso custodiva, e la Morte e l'Ade resero i morti da loro custoditi". (la Morte e l'Ade, quelli che stavano sul cavallo verde) "e ciascuno venne giudicato secondo le sue opere. Poi la morte e l'Ade furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte: lo stagno di fuoco". Quello che stupisce è che la Morte e l'Ade siano i veri nemici finali, gli ultimi a essere battuti. Il demonio, la bestia che rappresenta l'impero romano, la seconda bestia che rappresenta il clero pagano dell'Asia Minore, che fa parlare la statua dell'imperatore, sembrano essere protagonisti: in realtà non lo sono, sono comparse. L'unico, ultimo protagonista negativo è questa coppia: la Morte e l'Ade. "Vittorioso e per vincere ancora": vittorioso sulla morte, vittorioso sul nemico finale, quello di cui nel capitolo quindici della prima lettera ai Corinti anche san Paolo afferma: "L'ultimo nemico ad essere vinto sarà la Morte". Il che vuol dire, trasferendo tutto questo nel nostro mondo interiore, che la vera battaglia si combatte fra quel cavaliere bianco e quel cavaliere sul cavallo verdastro. Tutti i restanti sono strumenti. Non a caso nel capitolo sesto Giovanni dice che questi hanno il potere di uccidere la quarta parte della terra (simbolismo numerico): per il momento hanno il potere limitato di sterminare "con la spada", il simbolo del secondo cavaliere, cioè con la guerra, "con la fame", e "con la peste" conseguenze abituali delle guerre e della carestia: il terzo cavaliere, ma soprattutto "con le fiere della terra" e noi sappiamo dal capitoli 12 che le fiere della terra sono le bestie che rappresentano il demoniaco. Non è il demonio che gestisce la Morte, è la Morte che dà potere al demonio.
Due conclusioni da questa breve scorsa del libro. Apocalisse non fu composta per dirci cosa succede alla fine, ma cosa sta davvero succedendo delle viscere profonde della storia. Siamo coinvolti in un dramma che ci supera e dobbiamo conoscerlo con lucidità: dobbiamo sapere che la battaglia decisiva si combatte fra l'essere umano e la Morte; lo stesso demonio in qualche misura è uno strumento di quel cavaliere. I due rimanenti sigilli, il quinto e il sesto, presentano dei gruppi umani che appartengono ancora alle prime cose che vediamo: il quinto sigillo le anime di coloro che sono stati uccisi, dei martiri; il sesto sigillo i potenti della terra. Il dramma della persecuzione: una Chiesa che si sente fatta oggetto di persecuzione, che soprattutto che vive in un mondo che ormai vuole e violentemente pretende di essere a cultura dominante unica. Questo piccolo gruppo sa che la vera condizione della sua sopravvivenza non è la battaglia contro i potenti e i re della terra, non è neanche preoccuparsi della peste, della fame, della guerra: sono dei finti problemi ed anche la persecuzione è un finto problema. Il vero dramma è il dramma della lotta fra me e la mia morte e nel Cristo questo dramma è risolto. "È uscito vincitore e per vincere ancora".
Ecco, vi ho fatto un gioco di specchi: andare dall'inizio del dramma apocalittico, alla fine per farvi vedere come l'autore voglia portare gradualmente il suo uditorio ad una lucidità sempre maggiore innanzitutto su sé stesso e poi sul dramma della storia. Il simbolismo lo aiuta molto, perché lascia tradurre alla creatività dell'ascoltatore i simboli che veicolano il suo messaggio estremamente razionale.
Vorrei farvi notare ancora la lucidità storica del nostro autore. Consideriamo una sezione del libro che è secondo me è stata molto rielaborata (forse era quella che interessava di più e si capisce il perché: è quella che tocca la storia del momento in cui il libro è stato composto - ci sono varie teorie sulla datazione, ma possiamo tenere come data il periodo domizianeo 81-96): i capitoli dal 12 al 18. Nel capitolo 12 appare la cifra famosa della "donna vestita di sole con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle". I profeti, vi dicevo, ci avevano abituato a vedere la città di Gerusalemme come una donna, nei rapporti più o meno felici o combattuti con il suo Dio. In effetti, le dodici stelle sono una cifra di popolo: il popolo dell'Antico Testamento che genera un Messia. La mulier amicta sole "era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto. Apparve un altro segno nel cielo, un enorme drago rosso fuoco con sette teste e dieci corna, e sulle sette teste sette diademi, la sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra (ha potere sul cosmo). Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire, per divorare il bambino appena nato (il dramma di Cristo che si cerca di far tacere uccidendolo). Essa partorì un figlio maschio destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro e il figlio fu subito rapito verso Dio e verso il suo trono (la intronizzazione di Cristo). La donna invece fuggì nel deserto (altra cifra del popolo eletto) dove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni". Ancora il simbolismo numerico: la metà di sette è tre e mezzo; milleduecentosessanta giorni possono corrispondere a tre anni e mezzo: un tempo che sembrerà interminabile, perché partecipa del numero sette, ma che è la metà dell'eternità. Non sarà sempre così, non sarai sempre nel deserto. Un'altra cifra tipica è "tempo, tempi e la metà di un tempo": tre tempi e mezzo. È una delle trovate dell'autore di Apocalisse: il sette dimezzato.
"Scoppiò quindi una grande guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago, il drago combatteva insieme con i suoi angeli ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo". In questa frasetta si cela una mutazione quasi genetica nella mentalità religiosa, almeno della corrente giudaico-cristiana. Perché non c'è più posto per il drago nel cielo? Chi è questo drago? Lo dice Apocalisse: è il serpente antico, è il satan. Se rileggiamo il libro della Genesi, e quello di Giobbe, il ruolo del satan era quello del visir cattivo nei rapporti tra l'uomo e il Dio sovrano: fare in modo che l'uomo non si fidasse di Dio, ma soprattutto che Dio non si fidasse dell'uomo. Giobbe, bravino, buono, fa tutti i suoi sacrifici, è simpatico, ma appunto per questo il visir cattivo dice a Dio: "E, per forza, tu gli hai dato tutto, sta bene, gli va tutto bene!". Il ruolo del satan, del diabolos, di colui che si mette in mezzo, è precisamente questo: rovinare il rapporto di fiducia tra Dio e l'uomo. Apocalisse afferma che con la risurrezione di Cristo, quando il figlio viene rapito verso il cielo ed è vicino a Dio, non c'è più il satan, non ha più un posto per sé in cielo: la persecuzione non può essere causata da qualcuno che ci accusa davanti a Dio, Dio è con noi. "Ma - ci si chiede - perché la persecuzione?". Il nostro testo continua: "Allora udii una gran voce nel cielo che diceva: "ora si è compiuta la salvezza e la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo, perché è stato precipitato l'accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte"". Un bellissimo inno, ma che finisce con la frase che hanno tagliato dal breviario perché non è molto allegra: "Esultate dunque o cieli e voi che abitate in essi. Ma guai a voi terra e mare perché il diavolo è precipitato sopra di voi, pieno di grande furore, sapendo che gli resta poco tempo". Questo antico accusatore non sta più presso Dio, Dio non è più contro di noi. Ma agisce nella storia degli uomini, domina sulla terra. Lucidità, se volete pessimista, negativa: però non è un modo per assolvere Dio; Dio dovrà prendere posizione in questa lotta. Una lotta già vinta quando riconosco che il male si sviluppa nella storia umana. Vinta anche grazie alla conquista di un sano laicismo. "Ora quando il drago si vide precipitato sulla terra, si avventò contro la donna che aveva partorito il figlio maschio". L'ultimo versetto del capitolo presenta una lapidaria brevità ed è una delle immagini letterariamente più alte: "E si fermò (il drago) sulla spiaggia del mare" la belva guarda il mare, e con lui l'autore, quasi in attesa: "Vidi salire dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste, sulle corna dieci diademi e su ciascuna testa un titolo blasfemo". Per chi viveva in Asia minore o in Palestina, il mare era ad ovest. Ad ovest stava Roma. La bestia che approda, ammantata di segni di potere,\ è la forza dell'impero: "Alla bestia fu data una bocca per proferire parole d'orgoglio e bestemmie e il potere di agire per quarantadue mesi (sono i soliti tre anni e mezzo, non preoccupatevi). Essa aprì la bocca per proferire bestemmie contro Dio". Basta questo per dare potenza al demoniaco nel mondo? No! Bisogna aspettare un'altra bestia (versetto 11): "Vidi poi salire dalla terra un'altra bestia che aveva due corna simili a quelle di un agnello che però parlava come un drago". Ha solo due corna, sembra davvero un agnellino, non ha né le sette corna dell'Agnello Gesù Cristo né le dieci corna della bestia. "Essa esercita tutto il potere della prima bestia in sua presenza e costringe la terra e i suoi abitanti ad adorare la prima bestia". Sono i sacerdoti del culto imperiale che, mentre la bestia, l'impero romano, viene dal mare, da lontano, vengono invece dalla terra, da in mezzo a noi, sorgono dalla nostra razza. "Operava grandi prodigi, fino a far scendere fuoco dal cielo sulla terra davanti agli uomini. Per mezzo di questi prodigi che le era permesso di compiere in presenza della bestia (davanti all'imperatore, in suo nome) sedusse gli abitanti della terra, dicendo loro di erigere una statua alla bestia che era stata ferita dalla spada ma si era riavuta. Le fu anche concesso di animare la statua della bestia sicché quella statua perfino parlasse e potesse far mettere a morte tutti coloro che non adorassero la statua della bestia". Pensate a un povero giudeo cristiano, in Asia minore, di fronte ai santuari di Didimo, di Efeso: non poteva negare che vi fosse presente qualcosa di terribile, così come non potevano negarlo quelli a cui parlava. Però avverte: "Attenzione, c'è una belva, e quella belva è asservita a un potere malefico". Decodificando i simboli, scopriamo con quale lucidità sta conducendo la sua analisi.
Termino con un'altra analisi che quasi ha del bozzettistico e dell'umoristico: la caduta di Babilonia, che, ovviamente, è Roma. L'autore ha il coraggio, nel momento di massima espansione della pax romana, di intravedere la caduta della città. Veramente interessante è la descrizione della gente che piange su questa città. Capitolo 18 versetto 9 e seguenti: "I re della terra che si sono prostituiti e han vissuto del fasto con essa piangeranno e si lamenteranno a causa di lei, quando vedranno il fumo del suo incendio. Tenendosi a distanza per paura dei suoi tormenti diranno: (Bozzetto che ritrae i re della terra, le complicità politiche umane: va tutto bene finché c'era da divertirsi con lei. Nel momento in cui la città brucia si tengono a distanza: molto signorilmente, ma si tengono a distanza) "Guai, guai, immensa città, Babilonia, possente città, in un'ora sola è giunta la tua condanna". Anche i mercanti della terra piangono e gemono su di lei perché nessuno compera più le loro merci, carichi d'oro, d'argento, di pietre preziose, di perle, di porpora, di lino, di seta, di scarlatto, legni profumati d'ogni genere, oggetti d'avorio, di legno, di bronzo, di ferro di marmo, profumi, unguenti, incenso, vino, olio, fior di farina, frumento, bestie greggi, cavalli, schiavi e vite umane". C'è una certa voluta progressione verso quel finale "vite umane": ecco cosa in realtà si commercia sotto il regno della prostituta. "I frutti che ti piacevano tanto, tutto quel lusso e quello splendore sono perduti per te. Mai più potranno trovarli. I mercanti divenuti ricchi per essa si terranno a distanza per timore dei suoi tormenti, piangendo e gemendo diranno: "guai, guai, immensa città"". Anche questi sono diventati ricchi grazie a lei, però adesso stanno a distanza. È una scena degna di Goldoni quando vuole fare l'amaro. "Tutti i comandanti di navi e l'intera ciurma, i naviganti e quanti commerciavano per mare se ne stavano a distanza". Tutti stanno a distanza e "gridano guardando il fumo del suo incendio. "Quale città fu mai somigliante all'immensa città?"". Riecheggia uno dei luoghi comuni della propaganda imperiale romana: "Sole che sorgi libero e giocondo, sui nostri colli i tuoi cavalli doma: tu non vedrai nessuna cosa al mondo maggior di Roma". "Gettandosi sul capo la polvere gridano, piangono e gemono: "guai, guai, guai immensa città"". Ecco la lucidità: la Città imperiale si regge su delle complicità, non si regge su dei veri legami di vita: saranno le stesse complicità, in fondo, a farla cadere. Insisto, il messaggio di Apocalisse è il messaggio di un piccolo cristiano che ha il coraggio di guardare dall'interno il dramma della storia e di relativizzare, con molta lucidità, il grande mito imperiale che avrà ancora davanti a sé tre secoli. Ma è già finito, perché città umana è un coacervo intimamente retto da legami di interesse, di complicità, e che prima o poi sarà piombato nella morte, perché dalla morte è stato generato e non dalla vita.
Dibattito
La critica tende ad interpretare questo libro dell'Apocalisse come descrivente la caduta, la sconfitta dell'impero romano. Io vorrei sapere se ha senso ancora oggi leggere l'Apocalisse e vederlo come qualcosa che deve ancora venire o se c'è anche una possibilità di varie interpretazioni come qualcosa che ci può riguardare e che accadrà anche nel futuro.
Due risposte, o una risposta duplice, piuttosto: da un lato, il fatto che l'Apocalisse giochi su dei simboli che trae dalla tradizione profetica fa sì che il suo messaggio sia un quadro interpretativo per diverse situazioni storiche. Non bisogna mai violentemente identificare gli avvenimenti di Apocalisse con uno qualunque dei momenti della storia, ma si possono trarre da Apocalisse i principi per giudicare, in termini cristiani, qualunque momento storico. Ciò è tanto più vero perché Apocalisse usa dei simboli propri ai profeti. Il libro stesso ci dice: "Vi sto descrivendo una situazione come avrebbero potuto fare Geremia e Isaia", il ché vuol dire che Geremia e Isaia si sono trovati davanti ad altre situazioni analoghe, e, quindi, che c'è un ritorno di possibili quadri in cui leggere la simbologia di Apocalisse. La seconda risposta è che se Apocalisse si è realizzata per quello che era l'immediato, l'incredibile immediato, del suo autore (quella società, di cui egli intravedeva la debolezza intrinseca, è crollata), non si è realizzata per la parte positiva, cioè la discesa della Gerusalemme celeste, che aspettiamo ancora o costruiamo ancora. È vero in negativo che il cristiano, in base al Vangelo, deve e può giudicare la società degli uomini a partire da quanto vive nel suo cuore. Ma è altrettanto vero che c'è il positivo e la visione finale della sposa vestita di lino bianco splendente che viene da Dio deve incessantemente entrare nel tessuto della storia umana, che in questo senso non è mai compiuta. Il suo messaggio ridiventa attuale come quadro di giudizio nelle situazioni umane: uno dei possibili quadri di giudizio, ma anche perché per noi cristiani l'attesa è attesa fattiva, è costruzione di questa città. Non uso il termine Città di Dio per non fare il verso ad Agostino e anche perché poi, tutto sommato, l'impostazione di Agostino non mi piace moltissimo, però è vero che è ancora da costruire. Apocalisse è tutta compiuta nei primi venti capitoli, rimangono gli ultimi due da realizzare.
Mi è molto piaciuta la sua relazione: potremmo vedere in Apocalisse la concretizzazione di quanto leggiamo nel vangelo di Giovanni. In effetti, nella croce di Cristo, è avvenuto un giudizio: il principe di questo mondo è stato sconfitto, quindi la salvezza è sigillata in modo definitivo. Conseguentemente, tutti i fatti della storia altro non sono che un camminare verso questa teofania di Cristo, che troverà il suo evento nel ritorno di Cristo stesso e che si concretizza già attraverso la Chiesa di cui lei citava "La donna vestita di sole" Ecco, potremmo dirlo, pur essendo vero quanto lei dice, che non è un'allusione a Maria, ma mi è caro anche tener conto della interpretazione della patristica e anche dell'interpretazione di esegeti moderni, cito il p. De la Potterie, cito Bruno Forte nel suo libro sulla mariologia, ecc. Essi evidenziano anche questa interpretazione direttamente mariologica.
Non è Apocalisse che parla di Maria: è Maria che rientra nel quadro di Apocalisse in quanto membro della Chiesa.
Sono d'accordo. Prima di tutto mi piace vedere questo concretizzato già nella figura di Maria, poi mi fa piacere considerare come la liturgia stessa questo concetto lo evidenzia mettendo la lettura di Apocalisse nel periodo pasquale sia nei giorni feriali sia nelle domeniche di Pasqua. In uno dei cicli domenicali leggiamo i brani principali di Apocalisse evidenziando e sottolineando proprio questa verità: il mistero di Cristo che nella Pasqua ha sigillato il tutto e pertanto ha realizzato la sua vittoria. Sarei propenso a sfatare il concetto di Apocalisse visto soltanto in un'ottica negativa e invece accentuare quella seconda parte che lei ha evidenziato: la discesa della sposa, il mistico matrimonio della sposa e quindi il libro della speranza, il libro della gioia.
Torno sulla faccenda dell'interpretazione mariana. Non è che io ci scherzo sopra perché amo scherzare: l'interpretazione patristica che ha poi portato all'iconografia dell'Immacolata concezione con il serpente sotto i piedi, la luna e il sole, tende a mettere in rilievo la figura di Maria come immagine della Chiesa. A quel punto è chiaro che le due cose vanno assieme: la donna è un'immagine di popolo di Dio, Maria è immagine del popolo di Dio. È il motivo per cui, come è noto, il Concilio Vaticano II parla della mariologia nel quadro del documento sulla Chiesa. È quindi la Chiesa, come il popolo di Dio nell'Antico Testamento, che, nel travaglio, nelle difficoltà, nei lunghi tempi della promessa profetica, genera il Messia. Quando il Messia viene, quel popolo e quella donna diventano la Chiesa del Nuovo Testamento, in un'epoca in cui non si pensava ancora in termini di Nuovo e Antico Testamento. Sono ancora delle forme di giudaismo: il cristianesimo, il giudaismo, il fariseismo. Anche se il cristianesimo sta incominciando a prendere una sua identità che Apocalisse denuncia appunto con quel parlare dei centoquarantaquattromila più altri. C'è una trasformazione anche in questa donna. Dobbiamo però guardarci dalle facili identificazioni a fine meramente devozionale, perché stravolgono il testo, ci esentano dall'indagare cosa veramente esso voglia trasmettere. Posso dire: "parla della Madonna". Per questo lo leggiamo il giorno dell'Immacolata Concezione o dell'Assunzione di Maria. Ma non arrivo con questo a chiedermi di che cosa sta parlando: ho già la rispostina pronta. Vi è poi una seconda ragione: proprio a causa dell'immaginifico apocalittico, c'è il rischio di allontanarci mille miglia da quella fanciulla di Nazaret, che secondo me è molto più maestra di vita in quello che ha vissuto, che non in questa forma di semi-deificazione. Con tutto ciò, contempliamo sempre Maria, modello della Chiesa, che accoglie la Parola che la rende feconda.
L'ha accennato ieri pomeriggio, e anche oggi, il problema dell'autore: Giovanni. Ma non ha concluso il tema della pseudonimia letteraria, che io chiamerei piuttosto una dichiarazione di appartenenza. Inoltre, per una comprensione globale, sarebbe opportuna anche una battuta sulla linea interpretativa: Dio, Gesù Cristo, Giovanni, l'angelo interprete e così via. perché forse chiarisce.
D'accordo. Per i non addetti ai lavori, siamo ancora su quei primi versetti di Apocalisse. Una serie di mediazioni rivelative è reso necessario dal salto di qualità che impone di passare al secondo piano della storia. "Rivelazione di Gesù Cristo che Dio gli diede (Dio è all'origine della rivelazione; Gesù Cristo è colui che manifesta questa rivelazione), per rendere note ai suoi servi le cose che dovranno presto accadere (il termine sono i presenti, i servi), che egli manifestò inviando il suo angelo al suo servo Giovanni. Un dècalage: Dio - Gesù Cristo l'angelo il servo Giovanni e, infine, i suoi servi, i ricettori della rivelazione. In buona parte, è un gioco letterario inevitabile. Quanto alla pseudonimia giovannea, non parlerei per Apocalisse di un fenomeno di pseudonimia classica perché essa, nel caso d'altri libri, serve a spostare le rivelazioni in un passato remoto, per dare l'impressione di una storia che si sviluppa in maniera esatta fino a che l'autore la conosce, e che pertanto sarà esatto anche quello che dice dopo. Gioco che fa anche Dante quando sposta il suo racconto di alcuni anni per poter far profetizzare le anime dei defunti su fatti che lui conosce benissimo. Questo fenomeno nell'Apocalisse di Giovanni sinceramente non lo vedo; se c'è, è contestuale: gli ascoltatori credevano di udire le parole di Giovanni l'apostolo o di Giovanni il presbitero, figure passate e molto autorevoli nella Chiesa. Avremmo così un autore della fine del secolo, o addirittura dell'inizio del secolo seguente, che dice: "Io sono Giovanni e vi racconto che ci sarà una persecuzione da parte dei romani sulla Chiesa". Ma è una pseudonimia non volutamente dichiarata. Per di più, questo Giovanni si dice "vostro fratello, vostro compagno nella tribolazione". Sono indeciso tra due opinioni. Un pò perché per mia natura non sono molto legato alle problematiche sull'autore, se non quando davvero servano a chiarire il testo (se no si tratta proprio solo di una forma di rassicurazione sull'autenticità di un libro). Sono indeciso, dicevo, perché da un lato bisogna rilevare che, in maniera quasi unanime fino al terzo secolo (poi sono cominciati i pasticci), la Chiesa ha accolto questo libro, in fondo un pochino stravagante, selezionandolo in una pletora (cinquanta circa) di opere analoghe, che potevano o essere già nate cristiane o essere cristianizzate. Mi chiedo se sotto non ci sia proprio l'autorità, se non di Giovanni l'apostolo, di un Giovanni molto importante. Questa è l'opinione del mio maestro, p. Boismard. Egli fa morire l'apostolo prestissimo, insieme a Giacomo, però pensa che o una tradizione giovannea legata a costui, o altra tradizione legata a un qualche Giovanni particolarmente rilevante, si possa ipotizzare. Spesso afferma: "faccio più fatica a credere che siano di Giovanni l'apostolo il Vangelo e le lettere, che non l'Apocalisse". Io non vedo una vera pseudonimia: in più, una certa linearità di sviluppo nel futuro, quale troviamo in Giubilei o in altri libri apocalittici, è qui solo apparente. Riassumo. Il fatto che un libro così stravagante sia stato conservato quasi senza discussione nei primi secoli, fa pensare che all'origine ci sia una eminente autorità e quindi, perché no, un apostolo o un personaggio di rilievo della prima comunità (tesi Boismard); oppure, ipotesi mia, non mi sembra sia un fenomeno di pseudonimia funzionale allo sviluppo del libro. Non è indispensabile come invece è indispensabile attribuire a Enoch le visioni di Enoch, perché il libro funzioni. Questi sono gli elementi che posso dare.