Terza Conferenza
27 ottobre 2000
Oggi ci occuperemo dei brani in cui essenzialmente si concentra l'opera del redattore. La sua personalità teologica va definita un poco prima di affrontare il testo. Innanzitutto mostra di essere particolarmente debitore, e leggeremo i brani in cui maggiormente questo è evidenziato, di una mentalità che noi chiamiamo oggi medio-platonica. Se non era particolarmente legata al movimento dell'Accademia o del platonismo ufficiale, era una mentalità in genere abbastanza diffusa: il mondo in cui noi viviamo è un mondo di copie, è un mondo in fondo irreale, come è irreale il ritratto di una persona rispetto alla persona stessa, che costituisce la realtà. In fondo, noi e il mondo che ci circonda siamo l'attuazione povera, ridotta, limitata dalla materia, di un archetipo o di una seria di archetipi che stanno altrove e che hanno una loro realtà che è molto più reale che la realtà che noi viviamo. Questo tipo di mentalità, parlo di mentalità non di filosofia, era molto diffusa in certi ambiti particolarmente sensibili al problema religioso perché è ovvio che porta a dire: c'è il mondo di Dio che è quello in cui abitano le realtà realtà, le vere realtà, di cui noi siamo semplicemente, per vari gradi di emanazione, delle copie.
Se consentite un esempio tratto dall'esperienza umana, il progetto di un'automobile non si rompe mai. Non va neanche forte in pista, però non si rompe; non ha bisogno di essere rifornito di benzina, è ideale, ed è riproducibile in milioni di esemplari. Il mondo degli archetipi, l'iperuranio come lo avrebbe chiamato Platone, è il mondo del progetto, e il mondo in cui viviamo noi è il mondo delle copie. Trasferendo questa mentalità nel religioso, la gente che si rendeva conto che i riti, i gesti, le usanze erano estremamente limitate quanto agli attori, agli elementi coinvolti, alla materia di cui anche il rito è composto; pensavano che il rito fosse una riproduzione di un qualche cosa che avveniva nella casa di Dio.
Il tempio antico in ambiente semitico, e non solo in ambiente semitico, era concepito come una copia della reggia di Dio. Là dove c'erano dei simulacri, per esempio, la statua veniva svegliata al mattino da dei sacerdoti che aprivano le tende, andavano a dirle buon giorno, lavavano la statua, la vestivano, la profumavano, le mettevano di fronte la colazione e tutto quello che era necessario, tornavano all'ora di pranzo ecc. Sapevano benissimo che la statua non mangiava, però sapevano di compiere un servizio che era una copia del servizio che avveniva a livello divino dove la divinità era servita da altre divinità inferiori. Nello stesso tempio di Gerusalemme, nella sala da pranzo di Dio, c'era la famosa Menorah, il candeliere a sette braccia, con dei sacerdoti incaricati di tenere sempre pulite le lampade e sempre accese a turno un certo numero di luci fra le sette, c'era una tavola in cui si metteva del pane, c'era l'incenso come veniva usato nelle regge.
Ora, questa coscienza di vivere in un mondo, che noi oggi diremmo di simboli, può essere ribaltata in certi ambienti religiosi alternativi come quello riflesso dall'Apocalisse, in certi testi del Nuovo Testamento, compresa la Lettera agli Ebrei. L'ambiente cristiano nascente che non ha una sua liturgia: la liturgia è minima, c'è il battesimo, in certi ambienti una volta sola nella vita in altri forse ripetuto; c'è questo pranzo comune, che poi diventerà l'eucarestia e poi? Non c'è il tempio, non c'è un ambiente sacro, non ci sono dei sacerdoti paludati. Ma questi movimenti alternativi come ad esempio quello di Qumram che si sentivano in qualche misura esclusi dai culti ufficiali dicevano: noi saltiamo la fase della copia, noi partecipiamo in spirito direttamente alla realtà del cielo. In fondo era un'evoluzione, un'evoluzione in senso spiritualista: io pregando, noi pregando, partecipiamo alla liturgia del Cielo (non so se vi ricordate certi quadri a tre piani: la Chiesa trionfante, i santi, attorno al Cristo; al piano sotto la Chiesa militante, e al piano sotto ancora la Chiesa purgante: quelli che aspettavano di salire al piano superiore). Di questo tipo di mentalità è rimasta una grande traccia nella nostra liturgia. Pensate al canone romano, il primo canone: ti preghiamo Signore che questa offerta sia portata dal tuo angelo santo sull'altare del Cielo. C'è un altare in cielo? No! Ma è La coscienza che quello che noi facciamo qui ci connette con il vero rito che è nel cielo.
In ambito influenzato dal pensiero biblico, tale prospettiva si fonde con le speranze escatologiche: prima o poi il mondo ideale inghiottirà la realtà terrena.
Il secondo punto: assistiamo, nel Nuovo Testamento e in particolare nelle lettere di Paolo (e con una forte resistenza da parte di Paolo all'inizio dello sviluppo di questa teologia) al passaggio da una cristologia cosiddetta bassa a una cristologia cosiddetta alta. Mi spiego. I primi credenti, vi dicevo, affermavano del Cristo la cosa che per loro era più importante: egli siede alla destra del Padre perché è Messia. Il re quando veniva incoronato era invitato idealmente a sedere nel tempio alla destra del dio, in quanto suo luogotenente. I primi cristiani fanno questo primo passo di cui abbiamo già parlato: Gesù non si è seduto alla destra del Padre nel tempio, si è seduto alla destra del Padre nei cieli, nelle altezze. Non nella copia ma nella realtà. Non acquistando una finta immortalità, come si credeva dei sovrani: Cristo veramente ha vinto la morte, è seduto alla destra del Padre. Uscendo dall'ambiente ebraico questo interesse per il fatto che Gesù fosse o non fosse il Messia ovviamente è molto scemato: cosa interessava a un credente di Corinto o di Efeso o di Roma sapere che Gesù era il vero re dei Giudei? Interessava tanto quanto a noi interessa la successione dei presidenti nello Sri Lanka (è interessante, però leggiamo il trafiletto sul giornale e lo dimentichiamo subito).
La cristologia in ambiente pagano incomincia a modificarsi. Innanzi tutto, la resurrezione non è più importante come manifestazione del potere messianico di Gesù in quanto seduto alla destra del Padre, ma in quanto pegno della nostra resurrezione. Ulteriore passo: questo Gesù che è diventato sovrano alla destra del Padre incomincia ad essere concepito come sovrano della realtà intera. È quello che dicevamo la prima sera: Gesù Sapienza del Padre, che domina gli angeli, queste potenze che schiacciano, secondo la mentalità antica, l'essere umano, domina il destino. Per poco tempo, abbiamo letto ieri sera, è stato fatto inferiore agli angeli, per poco tempo ha subito il destino umano, ma poi tutto è stato sottoposto ai suoi piedi; egli domina su tutto. Capiamo così che anche per il pagano, che si sentiva oppresso da forze che non controllava, sentire di essere legato a questa persona che ormai ha superato tutte le dimensioni del cosmo per essere presso Dio, era una forza liberante enorme. Perché il pagano passava il suo tempo a tenersi buoni degli enti misteriosi, perché c'era un dio per una cosa, poi c'era un dio per un'altra, un dio per un'altra ancora e bisognava imbonirseli un pò tutti, anche se magari li consideravano solo angeli o esseri superiori. Il Cristo incomincia ad essere visto come il Cristo cosmico, il Cristo che domina il cosmo. Quel Cristo delle stupende cupole di certe basiliche bizantine dove il Pantocrator, l'onnipotente, domina al centro e sotto, nel tamburo, la teoria degli angeli ciascuno con in mano una palla bianca, una sfera di cristallo. Erano le sfere cui erano appuntate le stelle. Era un modo per mostrare che quell'uomo, Gesù Cristo, domina queste potenze, non bisogna averne più paura. Domina il destino perché come uomo ha dominato il suo destino: ha liberato dalla paura della morte e dalla soggezione a colui, il diavolo, che per paura della morte ci faceva vivere nella morte tutto il durare della nostra vita. Insteriliva, toglieva linfa alla nostra stessa esistenza. Il passaggio a questa cristologia alta è molto evidente nelle lettere ai Colossesi e agli Efesini, che secondo me non sono di Paolo, appartengono, come del resto la Lettera agli Ebrei, alla scuola Paolina. Ma si avverte pure in una vera lettera di Paolo, la prima Lettera ai Corinzi: si può vedere una certa resistenza di Paolo contro questa cristologia alta. Noi predichiamo Cristo e Cristo crocifisso, risponde, non facciamo troppa fantasia con gli astri. Però, poi questa cristologia alta si impone, ed anche nella fase redazionale della Lettera agli Ebrei incontriamo questo fenomeno.
Questo comporta una nuova visione del sacrificio di Cristo. Innanzi tutto, uno dei modi per distinguere il redattore dall'autore della Lettera agli Ebrei è che si spostano alcuni parametri. Il sacrificio di Cristo non avviene sulla terra ma avviene nel Cielo: Poiché dunque abbiamo un grande sommo sacerdote, che ha attraversato i cieli, Gesù, Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede. Non è esattamente l'idea che abbiamo trovato nel capitolo 5: nei giorni della sua carne. Mentre la prima omelia sul sacerdozio, l'omelia B (e anche l'omelia A) segue il mistero di Cristo terreno, umano, incominciamo a spostarci al piano di sopra. E com'è ovvio lo strumento del sacrificio non sarà più il corpo: un corpo mi hai preparato ... ed è per l'offerta di quel corpo, avvenuta una volta per sempre, che noi siamo stati salvati. Ora lo strumento è il sangue: il sacrificio sacerdotale che faceva da sfondo all'omelia B è il sacrificio consacratorio di milluim, teleiosis in greco, perfezionamento, conducimento alla perfezione. Sacrificio che avveniva prima che il sacerdote entrasse nello spazio sacro, prima che gli fosse permesso di accedere all'interno del tempio. Trasponiamo il simbolo nella dimensione cielo-terra: sacrificio che avviene in terra prima di entrare nella dimensione divina, il cielo, le altezze. La morte non è che la necessaria porta di passaggio per entrare nella dimensione divina. Invece, nel caso del redattore il sacrificio che è preso come punto di riferimento è il sacrificio del kippur il giorno grande dell'espiazione. In quel giorno, venivano portati due capri al sommo sacerdote. Egli imponeva le mani su uno di questi e su di esso confessava i peccati del popolo. In qualche modo, per la logica del gioco di cui parlavamo ieri sera, delle sostituzioni, caricava questo povero animale dei peccati di tutto il popolo. E questo capro era portato nel deserto e gettato da una rupe: veniva consegnato al demonio, ad Azazel. È il famoso capro espiatorio. Apro una parentesi: questa immagine del capro espiatorio non è mai stata usata per parlare di Cristo. Quindi non usiamola neanche noi: Cristo non è il capro espiatorio di niente, non è stato dato in pasto al diavolo nel deserto. Dell'altro capro cosa si faceva? Fuori dal tempio propriamente detto, sull'altare, veniva sgozzato, ma questa non era la parte importante del sacrificio; un pochino del suo sangue veniva messo in una ciotola. Il sommo sacerdote entrava nel Santo dei Santi, anzi sulla soglia del Santo dei Santi (solo quel giorno dell'anno poteva arrivare fin lì e solo il sommo sacerdote in carica), e non riuscendo a guardare dentro a quella camera vuota per il fumo degli incensi e l'oscurità, senza entrare, gettava qualche goccia di sangue dove sino all'esilio in Babilonia, secondo la Bibbia, era l'Arca e una lastra d'oro chiamata l'Espiatorio, il kapporet. Qual era il significato di questo gesto, in che senso era un'espiazione? Bisogna andare a un altro sacrificio, citato nella Lettera agli Ebrei nel capitolo 9. Quando Mosè stabilì l'Alleanza fra Dio e il suo popolo, prese del sangue, fu costruito un altare, intorno a questo altare si innalzarono dodici pietre, dodici stele. L'altare rappresentava Dio, le dodici stele rappresentavano il popolo, simbolismo abbastanza ovvio, e Mosè spruzzò il sangue di un animale sull'altare e sulle steli. In altri termini, creò un'alleanza di sangue tra Dio e il suo popolo. Da quel momento Dio e il suo popolo erano consanguinei, con-sorti, condividevano la stessa sorte. Il peccato, per quanto involontario, rompeva questa alleanza: una delle due parti si ritraeva dalla fedeltà al patto. A questo punto anche l'altro contraente, vale a dire Dio, poteva sottrarsi al patto, quindi non proteggere più il popolo. Per evitare questo bisognava ristabilire il patto, e questo patto veniva ristabilito rifacendo quel gesto di sangue.
Il sommo sacerdote spruzzava quelle qualche gocce di sangue all'interno del Santo dei Santi per dire a Dio: ecco la nostra vita (il sangue è sede della vita) è di nuovo sotto la tua signoria, l'alleanza è di nuovo ristabilita. Per questo il redattore della Lettera agli Ebrei, che ha in presente questo schema, non parla più dell'offerta del corpo di Cristo (legata alla consacrazione sacerdotale, in cui il corpo del sacerdote doveva essere integro e purificato per poter entrare nello spazio del divino, nel tempio), ma del Cristo che porta il suo sangue, che ristabilisce un'alleanza.
Torniamo al nostro testo: il Cristo, Sommo Sacerdote che ha attraversato i cieli, è colui che ha ristabilito un'alleanza per cui noi abbiamo il diritto di aspettarci da Dio la grazia, la misericordia e l'aiuto nel momento della prova. In maniera più esplicita lo dirà il capitolo 9 ai versetto 11 e seguenti:
Cristo invece, venuto come sommo sacerdote di beni futuri, attraverso una Tenda più grande e più perfetta - tenda nel senso di tempio, era il nome che il tempio aveva nell'Esodo - non costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa creazione, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna. Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsi su quelli che sono contaminati, li santificano, purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente?
La redenzione avviene attraverso il gesto di portare di fronte a Dio il proprio sangue. Quindi non è più la terra, è il Cielo il luogo del sacrificio, non è più il corpo lo strumento, è il sangue, la cerimonia che fa da retroterra culturale non è più la consacrazione dei sacerdoti, che coinvolgeva il corpo, ma il kippur che coinvolgeva il sangue, e le cose non avvengono più nel tempo, nei giorni della sua vita terrena (c. 5), entrando in questo cosmo il Cristo dice: un corpo mi hai preparato (c. 10), bensì nell'eternità. Continua il capitolo 9 verso la fine: (9,24) Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo - sta riprendendo la stessa idea - figura di quello vero - mentalità medio platonica - ma nel cielo stesso ... sangue altrui.
È lo sviluppo delle idee dell'omelia B. Innanzi tutto, si esce dalla logica della rappresentazione, del gioco: il Cristo non ha fatto questo attraverso il sangue degli animali ma attraverso il suo sangue. Il Cristo non ha giocato in un ambiente di simboli ma nella realtà della casa di Dio, ma la prospettiva è cambiata. È un Cristo cosmico. Da qui la meditazione del nostro autore sull'ulteriore tema che è il tema dell'alleanza. In Esodo 24 Mosè spruzza del sangue sull'altare e sulle dodici stele. Il nostro autore conosce questo gesto e dice:
Per questo neanche la prima alleanza fu inaugurata senza sangue. Infatti dopo che tutti i comandamenti furono promulgati a tutto il popolo da Mosè, secondo la legge, questi, preso il sangue dei vitelli e dei capri con acqua, lana scarlatta e issòpo, ne asperse il libro stesso e tutto il popolo, dicendo: Questo è il sangue dell'alleanza che Dio ha stabilito per voi (9,18-20).
La frase della messa: il sangue della nuova ed eterna alleanza, è una meditazione della Chiesa sul gesto di Gesù, evidentemente. Deriva da questo tipo di impostazione. In che senso allora il sacrificio di Cristo è ricostituzione dell'alleanza? C'era bisogno del sangue fisico di Gesù per ricostituire l'alleanza? Si doveva tornare in un mondo di simboli? O non, piuttosto, c'era bisogno che l'umanità, nel Cristo, riaffermasse il bisogno di essere alleata di Dio. Ecco l'espiazione, ecco la redenzione. Non si tratta di pagare Dio col sangue di un uomo: Dio non ne ha bisogno, non è una divinità sanguinaria. Non si tratta neanche di pagare il diavolo con la vita di un uomo: questo l'han detto alcuni teologi. Si tratta di affermare a nome dell'umanità, e di chi era l'umanità piena, questo bisogno dell'alleanza con Dio.
Un ultimo appunto a proposito di questa alleanza: il nostro autore, il redattore di questa seconda fase della lettera agli Ebrei, quello che unisce le due omelie precedenti e ricama mettendoci del suo, i capitoli 8 e 9 in particolare, è responsabile del fatto che dei libri come quello che stiamo leggendo si chiamino Nuovo Testamento. Perché testamento? É un gioco di parole della Bibbia greca: alleanza si dice in greco syn-theke dal verbo tithemi, porre, e dalla particella syn che vuol dire con. Noi parleremmo oggi di una com-posizione. Vale a dire: due persone pongono insieme un determinato atto giuridico. Si suppone che queste due persone abbiano uguali diritti e uguali doveri. Il caso di alleanza per eccellenza, la parola non c'è in italiano ma c'è in francese per esempio, è il matrimonio: un uomo e una donna aventi uguali diritti e uguali doveri com-pongono una coppia, cioè mettono insieme gli elementi per creare un matrimonio attraverso un atto giuridico. Nelle prime concezioni che troviamo nella Bibbia l'alleanza tra Dio e il suo popolo era di questo tipo: paritetica; Dio e il popolo con uguali diritti e uguali doveri si mettevano d'accordo con un patto. Nell'antichità questo valeva per quasi tutte le legislazioni. Siccome non c'erano i concetti di consenso popolare o di diritto naturale da cui far scaturire il diritto, questo era concepito come un patto tra un dio e la sua gente. Con-tratto traduce bene l'idea di syn-theke, trarre insieme delle cose. La coscienza biblica, col passare del tempo, si accorge che l'uomo, e in particolare il popolo eletto, non è in grado di sostenere un'alleanza paritetica con Dio. Le riprovate forme di infedeltà portano a che si scopra che c'è bisogno di un'alleanza nuova. Questa alleanza nuova è promessa da Geremia nel famoso testo (Ger. 31,31-34) che è riportato per esteso nel capitolo 8 della Lettera agli Ebrei.
Ci troviamo di fronte al solito schema tipico della Lettera agli Ebrei: se i profeti e i salmi ripromettono una nuova realtà, vuol dire che la prima non ha funzionato. La prima alleanza è quella di Mosè, ora c'è bisogno di un'alleanza nuova. Ma bisogna cambiare anche parola dia-theke, che assomiglia ma non è uguale: la dia-theke è l'alleanza tra un superiore e un inferiore, in cui in fondo questi ha tutto da guadagnare, il superiore tutto da perdere. Il caso tipico di dia-theke è il testamento: un patto tra qualcuno e suo figlio, in cui il figlio ha tutto da guadagnare, ed il testatore, perché l'atto abbia effetto perde la vita. Non è possibile un'alleanza di tipo paritetico fra un figlio e un genitore. Da qui nasce l'idea che la nostra non è un'alleanza ma è un testamento. Perché noi siamo dei bambini e Dio ci dà tutto, perdendoci tutto. Noi ci guadagnamo tutto.
Abbiamo ora tutto l'armamentario per scorrere velocemente il testo. Cominciamo col non tradurre come normalmente si fa il primo versetto del capitolo 8: il punto capitale delle cose che stiamo dicendo è questo. Kephalaion in greco innanzitutto non è "il punto" perché nel testo non c'è l'articolo quindi bisogna tenere "un punto" e poi va tradotto come è stato interpretato dai Padri della Chiesa. Kephalaion la cui radice è kephale, testa, caput in latino, va tradotto "capitolo" perché è un diminutivo. Un capitolo da aggiungere alle cose che stiamo ascoltando, che si vanno dicendo. In altri termini, il redattore si svela: vuole tirare una conseguenza dall'omelia B, che interrompe coi capitoli 8 e 9. Il punto da aggiungere è relativo al culto celeste operato da Cristo risorto:
Se Gesù fosse sulla terra, egli non sarebbe neppure sacerdote, poiché vi sono quelli che offrono i doni secondo la legge. Questi però attendono a un servizio che è -meglio: "ad" - una copia e un'ombra delle realtà celesti, secondo quanto fu detto da Dio a Mosè, quando stava per costruire la Tenda: Guarda, disse, di fare ogni cosa secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte.
Ecco all'opera la famosa mentalità realtà-copia basatasi qui su una credenza abbastanza comune in tutto il mondo antico per la quale il tempio è la copia della casa della divinità.
Segue l'introduzione del tema alleanza, con la citazione di Ger 31,31-34. Che questa pericope sia la mano del redattore è evidente per due ragioni: perché nel capitolo 10 abbiamo un'altra citazione dello stesso passo, ma con un testo greco diverso e più corta, commentata passo a passo. Il redattore non commenta passo a passo. La conclusione, la necessità di una nuova alleanza, non richiedeva una citazione tanto estesa.
Il capitolo 9 inizia con una descrizione del tempio, molto inesatta. È uno dei misteri della Lettera: il redattore conosce male la Bibbia oppure, meglio, la cita senza essere troppo attento al testo, forse perché proviene da un ambiente più distante dall'ebraismo. Appare molte volte la parola oro perché fa prezioso, fa bello, fa immaginifico, ma difficilmente troverete una descrizione fedele al testo biblico. Agli orecchi di un vero ebreo questa descrizione sarebbe apparsa stravagante! Sposta l'altare dell'incenso, mette nell'arca il bastone d'Aronne che non c'era. Al v. 6 inizia la descrizione del rito del kippur. In 9,9 appare una curiosa parentesi: Essa infatti è figura per il tempo attuale. Chiusa parentesi. Forse è di mano di un ultimissimo redattore, che vive dopo la distruzione del tempio, mentre questo testo è stato scritto prima della distruzione del tempio perché in seguito dice: (9,10) tutte prescrizioni valide fino al tempo in cui sarebbero state riformate. L'ultimo redattore, che non è neanche quello che mette insieme le omelie, ma è quello che crea la lettera, sembra affermare: guardate che quella era una profezia (usa la parola parabola) di quello che è avvenuto adesso, cioè la distruzione del tempio. Ma queste sono cose che interessano solo gli storici, e non voi che fate una lettura spirituale del testo.
Ai vv. 9,9-12 entra la parola redenzione, ma in che senso? Lytrosis di per se vuol dire proscioglimento. Una redenzione che è eterna, aionian, dove per "eterno" vale lo stesso senso che per il sacerdozio secondo l'ordine di Melchisedek: non è eterna nel senso che dura sempre, ma che trova la sua collocazione nell'eternità. Il gesto di Cristo che presenta il suo sangue è compiuto nello spazio dell'eternità quindi è presente per sempre; di qui, vi dicevo, tutta la logica dei sacramenti cattolici; quando noi celebriamo il battesimo, l'eucarestia, la confessione, ci connettiamo - per così dire -, noi che siamo nel tempo, a quel punto nell'eternità. I nostri sacramenti non lo ripetono: ne prendono il moto come la ruota prende il moto dal suo centro che però è immobile.
Nei versetti 13 e 14 arriviamo all'idea di alleanza per come ve l'ho spiegata.
Nella morte di Cristo sono stati espiati i peccati della prima alleanza, o, meglio, è stata creata una nuova alleanza che dà efficacia anche alla prima. Il principio generale, che vuole necessaria la morte del testatore perché il testamento abbia effetti pratici è un ulteriore espediente per giustificarela morte del Messia. È un passaggio necessario, nulla più: non tutti i padri che muoiono lasciano dei miliardi in eredità al figlio, solo quelli che i miliardi ce li hanno già. La morte è un passaggio, non è l'elemento fondamentale, come l'uccisione dell'animale non era fondamentale, ma necessaria, nel kippur. È una dimostrazione abbastanza ingarbugliata, quella che termina questo capitolo. Essa si chiude con l'affermazione:
Ora invece una volta sola alla pienezza dei tempi - questo rapporto unico con l'eternità - è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso (9,26).
Vorrei terminare con questo concetto: annullare il peccato, svuotare il peccato. Il nostro redattore usa l'immagine del kippur, ma è discepolo del suo maestro (come avrebbe detto Origene). Bisogna che ritorniamo alla cristologia del capitolo 2:
per ridurre all'impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita.
Il prologo (1,3) usa un'espressione molto concisa: dopo aver compiuto la purificazione dei peccati. Purificazione dei peccati e non dai peccati; è il peccato che viene purificato, è il peccato che viene svuotato del suo potere mortifero. È un unico plesso teologico: non si tratta di cancellare dei peccati, questa è la vecchia alleanza. Si tratta di svuotare la logica stessa del peccato, e perché Cristo doveva farlo attraverso questa sua morte? Non perché la morte ne sia strumento, ma per vincere colui che della morte ha il potere, perché alla fin fine ogni peccato è una scommessa che ciascuno di noi fa col suo desiderio di vivere. Come il serpente ha imbrogliato Eva? "Dio ti ha detto che se non mangerai di questo albero tu vivrai: non è vero. Dio non vuole che tu viva per sempre, Dio ha paura che tu diventi come lui".
Dio non ha paura che noi diventiamo come lui, non ha paura che noi viviamo per sempre. Dio ci ha fatti a sua immagine, abbiamo il diritto, abbiamo il dovere, di diventare come lui, basta che sappiamo veramente chi è lui, basta che non sbagliamo prefisso come fecero Adamo ed Eva, che scelsero la via della potenza, del dominio della scienza del bene e del male per diventare potenti ed essere una scimmiottatura idolatrica di Dio. Dio non è dominio del bene e del male, Dio è amore e su quella pista noi legittimamente possiamo chiedere, pretendere, lottare, per diventare Dio ed essere immortali.
Così, il peccato e la paura vengono svuotati. Colui che ci tiene nel suo dominio grazie alla nostra paura e che ci dice costantemente: "Dio ti ha imbrogliato, ti ha buttato in un'esistenza da stupido, come un fuscello gettato in un ruscello, che se ne va senza un senso", perde il suo potere se noi viviamo quel dialogo profondo con Dio che è il dialogo di Gesù Cristo. Se sappiamo ricostituire in noi, grazie a lui, l'alleanza, riconoscendo la sua signoria sulla nostra vita, spacchiamo quella logica e purifichiamo il peccato. Non riceviamo un'amnistia, cambiamo la nostra vita e diventiamo quello che abbiamo il dovere e il diritto di essere: figli di Dio.
Domande:
D: mi ripromettevo di non intervenire, dico la verità, però sono un temperamento curioso. Ho avuto questa impressione stasera e lo chiedo all'uditorio: che il nostro compito di uditori interessati questa sera è stato più facile che nelle sere precedenti. Sicuramente il motivo è dovuto al fatto che P. Paolo ci ha condotto per mano con grande intelligenza e quindi abbiamo migliorato le nostre capacità comprensive nel corso delle tre serate. Sicuramente questo è un fattore. Però a mio parere non è il solo. Vorrei sapere da P. Paolo se vedo bene o male in questo: io ho l'impressione che l'autore delle due omelie, e lei mi pare ce lo ha fatto intravedere quando ci ha parlato di cristianesimo alto e cristianesimo basso, sia di un certo tempo e non poco precedente al redattore. Non solo, ma che deve essere intercorso del tempo perché sia maturato questo cristianesimo successivo, che è più semplice. Io ho l'impressione che il primo ha ancora una mentalità piuttosto contorta, che non si è ancora depurata, e che il redattore invece (che è successivo) abbia semplificato molto le cose, sono più facili da capire, parla per assiomi e per assiomi paralleli: la vecchia alleanza, la nuova alleanza; il vecchio testamento, il nuovo testamento; il sangue degli agnelli, il sangue di Cristo. Sembra di capire che è stata affrontata una maturazione e come sempre le acque che erano torbide si sono chiarite. Ecco mi piacerebbe sapere: si sa più o meno o si immagina quanto tempo sia intercorso tra l'elaborazione delle omelie e la redazione? Penso sia importante, anche dal punto di vista storico, il come è avvenuto questo assemblaggio.
P.G.: io farei due osservazioni. La prima è che per noi è più facile capire la mentalità del redattore, come è più facile capire certi testi del Nuovo Testamento, perché son quelli che di fatto hanno più direttamente formato la nostra fede. Ribalterei il punto di vista. Il frutto maturo del cammino è quello che noi abbiamo ritenuto. I precedenti, sopratutto se questi precedenti sono più vicini a una problematica di tipo ebraico o comunque più biblica e meno vicina alla nostra sensibilità, a noi risultano più ostici, effettivamente. Soprattutto il problema del messianismo: anche a noi oggettivamente non interessa molto l'idea del messianismo regale, se Cristo sia davvero il messia o no, messia nel senso di re promesso della stirpe di Davide ecc. Per noi si poteva chiamare anche Gianantonio Antoniazzi che l'importante era che fosse figlio di Dio: per noi che siamo eredi di questo cristianesimo evoluto ed evolutosi in ambiente pagano. L'autore delle prime due omelie è già evoluto rispetto a S. Paolo originario o ai vangeli; usa anche lui delle tipologie, fa anche lui dei confronti fra Antico e Nuovo Testamento usando delle figure dell'antico per spiegare l'evento cristico, anche se effettivamente la sua è ancora una cristologia lontana dalla nostra mentalità: la chiamo cristologia bassa perché è molto più pudica (ma così era anche S. Paolo autentico). Il fatto di mettere Cristo alla destra di Dio nell'alto dei cieli è molto bello se letto nella chiave del messianismo regale, davidico, ebraico o orientale, perché dice: invece che sedersi nel tempio e morire dopo qualche anno, si è seduto veramente alla destra di Dio nel cielo e non è morto più. Ma se questa idea la trasferiamo in ambiente pagano, o, meglio, quando un cristiano di origine ebraica pensava a come avrebbe potuto reagire un pagano dell'epoca di fronte ad un'immagine del genere, un certo sospetto era d'obbligo: un pagano, che ha letto le Metamorfosi di Ovidio, poteva dire: eh va be', è successo a un sacco di ragazzine di scappare di fronte al dio che voleva sedurle e di essere trasformate in una costellazione. C'è anche la costellazione del cane: un cane che è diventato celeste. È chiaro che un S. Paolo, o il primo autore di quelle due omelie della Lettera agli Ebrei, di fronte a questa possibile eco del mito avesse un pò paura. Per molti aspetti, la cristologia che chiamiamo "bassa" è anche molto moderna, perché mette l'accento sull'esperienza esistenziale del Cristo. L'ambiente ebraico era particolarmente preparato ad accoglierla dalle meditazioni sull'esperienza esistenziale dei profeti: il destino tragico di Mosè che guida il suo popolo fuori dal deserto e poi non entra nella terra promessa. Il destino di Geremia che passa metà del suo libro a lamentarsi: Signore mi hai sedotto e mi son lasciato sedurre, Signore sei come un torrente in cui non ci si può fidare a mettere i piedi, sei una cisterna screpolata che non tiene l'acqua. Il destino di Giona, il destino di Giobbe: queste figure esistenziali preparavano più a vedere il Cristo nella sua dimensione umana, esistenziale, quella che noi oggi stiamo riscoprendo. Però per educazione siamo abituati al Cristo celeste, non ci scandalizza l'idea che Cristo sia in cielo, eterno, mentre per l'epoca era un'idea molto pericolosa.
Quanto alla cronologia: il capitolo 9 è la chiave. Ripeto la mia teoria: due omelie dello stesso autore, che io chiamo il maestro, son state fuse insieme per fare un trattatelo; questo trattatelo è stato trasformato in una lettera con l'aggiunta dei capitoli dal 5 versetto 11 a 6,20 e poi della finale, il capitolo13. Che il redattore abbia fatto le due operazioni, prima l'assemblamento e poi la trasformazione in lettera può darsi e non può darsi. Quello che è evidente è che la trasformazione in lettera è stata fatta dopo la distruzione del tempio nell'anno 70. Lo si evince da quella frasetta che vi ho detto: "questa è una profezia per i tempi che noi stiamo vivendo". È una parentesi, perché grammaticalmente fa fatica ad unirsi al contesto. È una nota o di chi ha trasformato Ebrei in lettera o di una quarta mano: parla al presente "tutto il culto del tempio durerà fino al momento della sua riforma", diceva il testo (9,10), ora, quando il tempio viene distrutto la nota vi legge una profezia (9,9). Quindi, collocherei l'insieme dell'opera finita poco dopo il 70 d.C. Il resto, soprattutto le due omelie iniziali, può benissimo essere molto antico. È molto legato alla primissima fase della meditazione cristiana, elaborata prima degli anni 50. Se noi datiamo la prima lettera ai Corinti intorno agli anni 54-57 ed in essa osserviamo che Paolo resiste contro una cristologia che sta incominciando a diventare cosmica, possiamo collocare il passaggio fra la prima fase, le due omelie, e la seconda fase, la composizione del trattatelo ad opera del redattore, più o meno in quegli anni. Sono ipotesi basate su supposizioni, perché purtroppo non abbiamo molti elementi.
D: Ma questa Lettera agli Ebrei fortifica la fede ai cristiani o la diminuisce?
P.G.: è stata scritta per fortificarla. Un conto è la Lettera, un conto la spiegazione che io ne ho dato. La lettera in sé non è stata tanto scritta per fortificare la fede quanto per chiarirne i contenuti. E ho già detto in che chiave: una comunità delle origini che si sente depauperata rispetto alle religioni ufficiali perché non ha gli stessi riti, ha bisogno di un conforto. Non a caso il biglietto finale dice: accogliete questa parola di consolazione, di conforto. Addirittura, il padre Spicq, un domenicano di Friburgo che ha scritto la traduzione e le note per la BJ dell'edizione del '53, la riteneva scritta a dei sacerdoti esclusi dal tempio in quanto cristiani. In questo senso conferma la nostra fede. Oggi, nel confronto tra tante dimensioni religiose, nella trasformazione dei nostri stessi gesti religiosi, fra varie tensioni (chi va avanti, chi va indietro, chi fa le messe in latino, chi le fa in inglese direttamente così è più moderno), la Parola ci aiuta anche ad andare al di là, al cuore del problema uomo, per come quel problema è vissuto dal Cristo vero Figlio di Dio, ma vero uomo. Non dimentichiamocelo, vero Dio, vero uomo, dove quel vero vuol dire due cose: che non era un involucro intorno alla divinità, ma un essere umano come noi, e che come essere umano è stato particolarmente "vero", l'hanno ammazzato per quello. Ha preso il ruolo del guastafeste; ruolo necessario, come la dimensione del gioco è necessaria: abbiamo tutti bisogno di uno spazio sacro, di gesti sacri, però tutti siamo coscienti che diventano una mascherata se noi non ci siamo con noi stessi, se non servono a diventare pienamente figli di Dio. E in quel grido di cui abbiamo parlato ieri, con forti grida e lacrime a Colui che poteva liberarlo da morte, nel suo abbandonarsi, e in quel grido, noi incontriamo il musulmano, il buddista, l'ateo, il peccatore, noi stessi peccatori. Direbbe S. Paolo nella lettera ai Filippesi (o chi per lui, perché cita un inno): vogliamo fare della vita una specie di preda gelosa, di questa nostra somiglianza con Dio che è la vita: Dio è il vivente. Una specie di preda gelosa di cui ci impossessiamo e che gestiamo noi convinti che Dio in fondo ci voglia imbrogliare. Forse ci è stato presentato male, forse noi stessi abbiamo paura di lui. La Lettera agli Ebrei afferma, citando l'Antico Testamento: il nostro Dio è un fuoco divorante, ci vuole il coraggio di cercare in lui la vita. Ma, torniamo alla prima omelia, noi non cerchiamo una patria terrena, il nostro non è un itinerario terreno, siamo più grandi, il nostro desiderio è a misura di Dio.