Dal Vangelo ai Vangeli: Prima Conferenza
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Appendice prima

Dal Vangelo ai Vangeli
Prima Conferenza

Conferenze tenute a Bologna per il Centro San Domenico

Nel corso del secondo secolo dopo Cristo, la Chiesa decise di limitare ai quattro vangeli che ancora venera il numero dei documenti canonici sulla vita di Gesù il Nazareno. Ma canonico significa solo che un testo è Regola della Fede, metro di misura per l'adesione comune in tutte le Chiese al messaggio del Salvatore. I Padri non intendevano limitare ai vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni le fonti storiche sul Cristo, né rifiutare in blocco tutte le altre testimonianze circa la sua vita morte e risurrezione, oppure negare le evidenti discordanze fra i quattro vangeli canonici; ma non volevano neppure vincolare i credenti ad una pletora di testi, più o meno infarciti di leggende.

Questa decisione finì col porre termine a due processi, apparentemente divergenti: da un lato si assisteva al moltiplicarsi dei racconti, spesso costruiti per accreditare credenze settarie o per saziare la curiosità popolare circa i periodi oscuri della vita di Gesù, dall'altro fiorivano i tentativi di armonizzare in un'unica "Vita di Cristo" le notizie, spesso contrastanti, fornite dai vangeli conosciuti. Fu una decisione coraggiosa e ad essa siamo debitori della mirabile sinfonia in cui la Parola di vita, come un leitmotiv, si intreccia in mille accordi diversi, scomponendosi e ritrovandosi come la luce rifratta da una pietra preziosa.

Lo storico deve enucleare, innanzitutto, la personalità letteraria e teologica di ciascun vangelo: essi furono redatti per comunità diverse da persone diverse. La liturgia ci indica questa via, quando chiede di proclamare pubblicamente che si sta per leggere il vangelo, la buona novella, secondo Luca, o secondo Matteo. Un ulteriore stadio d'indagine conduce a porsi seriamente il problema delle fonti usate da ciascun evangelista: ad essi giunse (e Luca lo dichiara esplicitamente) materiale già scritto, o raccontato nelle comunità. Analizzando differenze e somiglianze è possibile intravedere l'intrecciarsi dei documenti che precedettero le stesure in nostro possesso. In questa fase, non è inutile rileggere anche i vangeli cosiddetti apocrifi, poiché nulla impedisce che chi li scrisse abbia attinto a documenti antichi ed autentici, conservati da questa o quella comunità. Una analisi attenta di tali documenti rivela, infatti, che anch'essi erano concepiti per un dato uditorio o per specifiche necessità: circolavano, infatti, raccolte di detti del Maestro, racconti già confezionati per la celebrazione comune, riletture in chiave cristiana di storie e insegnamenti dell'Antico Testamento.

L'affascinante percorso nei testi tramandatici, confrontati con quanto sappiamo, grazie ad altri documenti o all'archeologia, dell'ambiente fisico ed umano del tempo, conduce a meglio precisare i contorni storici di quel Volto, che già appare in tutta la sua umanissima bellezza dai vangeli canonici e che, per i credenti, è "immagine del Dio invisibile".

Vorrei darvi, soprattutto nella seconda parte di questo incontro, qualche consiglio di metodo: come leggere, raffrontandoli fra loro, i vangeli. Mi pongo nella prospettiva non tanto di chi fa indagine strettamente storica e neppure nella prospettiva del teologo, che si interessa delle idee, quanto nella via di mezzo di chi vuole fare una storia delle idee, in particolare della percezione di questa Persona, la persona di Gesù, del suo mistero e di quello che, su di lui e attraverso di lui, i discepoli hanno intuito e ci hanno trasmesso. Con un pò di scetticismo, non mi pongo la domanda se la tal cosa è davvero avvenuta, neppure cosa significa per noi, in termini teologici, mi chiedo, invece, perché è stata raccontata in tal modo, per ricostruire la reazione dei primi discepoli, che furono testimoni della persona e della vicenda di Gesù. La reazione che hanno poi trasmesso a noi, poiché non possiamo ignorare questo filtro.

Credo che il modo migliore per cominciare sia quello di far parlare uno di loro, un discepolo di terza o quarta generazione. Qualcuno che non ha visto direttamente i fatti, ma con un minimo di acribia, così la chiama (desiderio di precisione storica, per come ai suoi tempi la precisione storica potesse essere percepita), fa una ricerca, la cui finalità non è solo accontentare una curiosità personale, ma anche dare solidità agli insegnamenti cui i credenti aderiscono. Questa persona è Luca. Egli è l'unico che ci trasmette la sua coscienza di scrittore: studi recenti sulla composizione del Nuovo Testamento, non solo dei vangeli, tendono a dare a Luca molte "colpe", molti meriti, proprio nel lavoro di redazione di quel gruppo di libri che ci sono arrivati e che noi chiamiamo Nuovo Testamento.

Luca, o chi ritiene di così introdurre il terzo vangelo, dice: "Poiché molti hanno posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin dal principio e divennero ministri della parola, così ho deciso anch'io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teofilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto" (Lc. 1, 1 — 4).

Al di là dell'autenticità o meno dell'incipit di questo vangelo, se sia da attribuirsi cioè alla penna di Luca o di un suo discepolo, che vuole interpretare l'intenzione di Luca, un dato per noi ineliminabile è proprio l'ultima frase. Già nelle prime generazioni cristiane c'è chi dubita della solidità degli insegnamenti che ha ricevuto, se no — sembra dirci l'evangelista — egli non avrebbe fatto questo lavoro. In altri termini, dati i modi che allora assumeva la trasmissione di idee e di racconti, una certa fluidità, relativamente a questi racconti, poteva indurre Teofilo, che forse è un personaggio immaginario (il nome Teofilo significa amico di Dio: qualunque credente), a dubitare della solidità, non tanto della fede che ha ricevuto, ma degli insegnamenti. Questo testo di Luca ne dà il motivo, creando una sorta di genealogia, di resoconto delle tappe gerarchizzate della trasmissione di quello che lui chiama gli avvenimenti successi tra di noi sin dal principio. Questa frase, molto importante, e non è l'unica di tale tenore nel Nuovo Testamento; ne leggiamo una simile all'inizio della lettera agli Ebrei: i cristiani di terza generazione, discepoli di discepoli — Luca si era affiancato a Paolo, il quale a sua volta aveva imparato da qualcun altro che cosa aveva detto Gesù Cristo (a Damasco, Paolo è andato al catechismo, come tutti gli altri, e lo dice chiaramente nella prima lettera ai Corinti al capitolo 15: "vi trasmetto quello che io stesso ho ricevuto") - parlano di "avvenimenti successi fra noi". Non è vero, fisicamente: Luca non era presente, ma quel noi manifesta la coscienza che anche chi ha solo sentito di quegli avvenimenti è in qualche modo ad essi contemporaneo. Luca stesso, o chi ne fa il ritratto letterario in questi versetti, confessa che non si tratta di un lavoro che non coinvolge; ci ha detto per quale finalità lo fa, perché Teofilo non dubiti della solidità degli insegnamenti che ha ricevuto, ma a sua volta si pone in quel noi che fa di Teofilo, di Luca stesso, dei contemporanei agli avvenimenti.

In questa introduzione al terzo vangelo non si parla direttamente di Cristo; si parla delle cose, dei fatti (pragmàton, il risultato di un processo di azione, di una pràxis), che sono stati portati a compimento, che si sono adempiuti (è questo il significato del verbo greco che egli usa: perì ton pepleroforemènon en emìn pragmàton). Questi avvenimenti nascondono una persona. Non ha detto, come nel linguaggio stesso dell'opera lucana, in At 10,38: "intorno a colui che è passato beneficando e risanando". Per lui sono avvenimenti, accadimenti che vengono portati alla loro pienezza di fronte ad un gruppo di spettatori, che coinvolge i primi testimoni e coloro che ne scrivono, come Luca, che testimone non è stato. Questi avvenimenti sono la sorgente. Ma ponendo quel noi, avvenimenti accaduti fra di noi, fa anche capire qual è la distinzione che nel linguaggio moderno poniamo fra un fatto e un evento. Non si tratta dei fatti bruti, non si tratta di registrare delle azioni o anche degli accadimenti casuali. Si tratta di leggere degli eventi che, come dicevo, lo coinvolgono come hanno coinvolto i primi testimoni. Ora, a portare a Luca il materiale su cui egli lavorerà come storico, storico nella sua prospettiva, vi sono coloro che sin dal principio sono stati testimoni (ed usa una parola tecnica: autòptai, dalla radice del nostro concetto di autopsia: vedere direttamente, con i propri occhi), ma non si ferma lì, sono stati testimoni e sono divenuti servi della parola. Da un punto di vista meramente storico, sta denunciando quello che noi chiameremmo un coinvolgimento soggettivo molto forte. L'autòptes, il testimone oculare, è un coinvolto. Oggi in treno, venendo a Bologna, ascoltavo una ragazza raccontare di un incidente d'automobile occorsole, diceva: "La testimonianza della persona che era con me in automobile, e c'era per caso poiché la stavo portando a casa da una riunione, non viene considerata, perché è considerata testimone di parte". Luca confessa chiaramente d'essere testimone di parte. Poiché non sono solo testimoni oculari, sono diventati, in seguito a quello che hanno visto, dei ministri, dei servi della parola. E costoro l'hanno trasmessa a noi. Il concetto è dato dal verbo paradìdomi, il verbo della tra-dizione, non semplicemente un trasmettere, ma un consegnare. Lo stesso verbo viene utilizzato per la consegna di una verità o per il tradimento di Giuda, nei racconti della passione; come del resto, nelle lingue latine, tradire e tradizione hanno la stessa radice. Si tratta cioè di consegnare un messaggio, e noi ci chiediamo come lo hanno consegnato. Normalmente i critici vedono, sotto questa idea della consegna del racconto degli avvenimenti avvenuti, la presenza di quella prima fase della trasmissione dei vangeli, che (entro già nei problemi tecnici) viene chiamata fase di trasmissione orale. Questi primi testimoni oculari avrebbero trasmesso oralmente gli insegnamenti, i detti e i fatti circa la vita di Gesù.

Una scuola i critici, che hanno studiato il testo dei vangeli per capire in che modo si siano formati, ha evidenziato come gli insegnamenti e i fatti siano trasmessi attraverso delle "forme". Le parole sono organizzate in formulari stereotipi quali venivano utilizzati nell'antichità per la trasmissione e per l'apprendimento a memoria di nozioni: erano affidate alla voce e all'orecchio, fino a fissarsi nella mente. I miracoli hanno spesso lo stesso schema, alcuni testi sono ritmati. Questa scuola, che di solito si cita col suo nome tedesco, perché erano degli autori in maggioranza tedeschi, ha poi lavorato sui paralleli che queste forme di trasmissione presentavano con le forme di trasmissione di altri insegnamenti, in particolare insegnamenti filosofici, almeno a livello popolare, o insegnamenti legati al mito nel mondo greco-romano.

Non credo che ci sia mai stata una fase orale pura. Per la funzione stessa che aveva la scrittura nell'antichità, che non ne faceva una trasmettitrice di idee, quanto piuttosto un supporto alla memoria, forse addirittura durante la vita di Gesù (perché no? Non abbiamo nessun diritto di escluderlo, da un punto di vista meramente teorico e metodologico), alcuni suoi insegnamenti più che il racconto dei fatti e, dopo la sua morte, anche i fatti, sono affidati a una trasmissione mista, scritta ed orale: le due interagiscono, tenendo presente che i gruppi dei primi credenti potevano essere composti da persone fra le quali solo alcune sapevano leggere. Quindi la paràdosis, la tradizione, la trasmissione, avviene, come raffigurato spesso nei sarcofagi cristiani di epoca romana, con la consegna fisica di un rotolo, di un testo, ma accompagnato dalla parola. Questo è ciò che suppongo sia nella mente di chi scrive l'incipit del vangelo di Luca, quando ci dice: per come essi ce lo hanno consegnato. Non è solo un concetto di passaggio di una determinata dottrina, ma nasconde anche, perché la gente allora aveva i riferimenti scritti, questi riferimenti concreti. C'è nella trasmissione un deposito scritto, che va in parallelo con un deposito orale.

In un momento relativamente vicino agli avvenimenti, questi insegnamenti, in parte orali, in parte scritti, vengono raccolti in documenti, che non sono ancora i vangeli che abbiamo noi. Vedremo come ipotizzare, anche se non ne abbiamo nessuno allo stato originale, l'esistenza di documenti previ alla stesura dei vangeli spieghi, innanzitutto, la frase di Luca stesso, quando dice: "così ho deciso anch'io di fare ricerche accurate su ogni circostanza sin dagli inizi e per scriverne per te un resoconto ordinato, poiché — così cominciava la frase — molti hanno posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi fra di noi".

C'è una fase in cui questa tradizione orale, e scritta in parte, deve essere "ordinata". Siamo già ad una produzione principalmente scritta, non più orale con qualche elemento scritto: si sente il bisogno di darle un ordine.

Scopriremo che questo bisogno, che è quello che porterà Luca a scrivere il suo vangelo, come Marco, Matteo e Giovanni e come certe altre testimonianze che ancora abbiamo, ha prodotto già precedentemente dei documenti completi, almeno in parte. Questo ci fa capire, innanzitutto, il fenomeno delle somiglianze e delle divergenze frai vangeli; è evidente che gli evangelisti lavorano su delle veline, perché si assomigliano troppo; è come quando tutti i giornalisti dei vari giornali, non importa di quale tendenza, lavorano su un testo di agenzia, che riporta la tal frase del tal uomo politico. Ma permette di comprendere anche un altro fenomeno: le tracce di autentica testimonianza delle origini, molto antiche, che troviamo non solo nei quattro vangeli canonici, quelli che conosciamo come tali, ma anche in altri testi del Nuovo Testamento canonico, per esempio in san Paolo, come in testi che non sono entrati nel canone, ma che sono rispettabilissimi documenti della cristianità primitiva, e che chiamiamo apocrifi (mettendo insieme una pluralità di scritti di diversa qualità, anche dal punto di vista storico).

Però è evidente che, se dei pre-evangeli, dei documenti, circolavano prima dei vangeli che conosciamo noi, possiamo trovarne delle tracce anche in altri scritti dei Padri della Chiesa, che li leggevano ancora, mentre noi li abbiamo, ahimè, perduti. Nelle omelie, nei commentari, nelle armonie evangeliche. Noi dobbiamo ricostruirli sulla base delle testimonianze che possediamo, sapendo che tali documenti hanno continuato ad avere una certa autorità per lunghi periodi.

Paolo scrive: "Come dice il Signore, c'è più gioia nel dare che nel ricevere"; secondo i vangeli, Gesù non ha mai detto questa frase; è arrivata all'Apostolo, probabilmente, da questi documenti previ. Vedremo che questi documenti si dividono in due grandi categorie: una, che di solito è indicata con la sigla Q, che è composta delle raccolte di detti. Alcune raccolte potrebbero essere addirittura, almeno in parte, contemporanee a Gesù stesso. Non c'è motivo di escluderlo, perché ogni maestro raccoglie delle dispense, prima o poi. Vi sono, poi, le narrazioni dei fatti. Segue una produzione più matura: detti che diventano fatti, parabole o riletture degli avvenimenti alla luce di precedenti biblici.

Per riassumere, i due fenomeni che così si spiegano sono: a) quello che denuncia Luca stesso: "molti hanno posto mano a scrivere prima di me e io sono andato a spulciare i loro documenti", b) come certe parti di questi documenti si trovino altrove, non solo nei vangeli canonici, che sono tali in quanto regola della fede, non in quanto storici. Possono essere molto più storici altri testi, che consideriamo apocrifi.

I vangeli che leggiamo oggi si pongono in una fase intermedia; dopo questa fase scritta e orale, dopo la fase di stesura di documenti pre-evangelici, prima delle armonizzazioni.

Luca vuol mettere in ordine (poi gli darà un ordine tutto suo particolare: il vangelo di Luca fa dire quasi tutto a Gesù mentre ananza verso Gerusalemme. È un viaggio interminabile: quasi dieci capitoli di parole, che non troviamo in Marco). Ma questo desiderio di mettere in ordine oltrepasserà i quattro vangeli canonici e alcuni dei vangeli apocrifi, fino a portare ancora nel Medioevo a delle armonie. Anche Agostino ne scrisse una. La più famosa è il Diatessaron di Taziano: un vangelo attraverso i quattro vangeli.

Il desiderio di avere una storia coerente e ordinata; cosa che i vangeli canonici non sono sempre.

A un certo punto, le Chiese decidono di arrestare il processo, perché si accorgono che c'è un moto, da un lato, di riempimento dei vuoti con tanta fantasia, dall'altro di armonizzazione dei diversi vangeli. Però, sottobanco, queste armonie continuano ad essere prodotte, fino a Medioevo inoltrato, e conservano tracce di documenti e di vangeli, che non sono i vangeli che noi abbiamo. La pluralità dei documenti pre-evangelici, come i quattro vangeli canonici, talvolta in una stesura precedente a quella che conosciamo, ha continuato a circolare per secoli. Lo osserviamo, ad esempio in certe omelie del quarto secolo, dove, commentando il quarto vangelo, san Giovanni Crisostomo afferma: "Guardate quanto è virtuoso Gesù, che a quelli che l'attaccavano non risponde nulla". Poi uno va a leggere il vangelo di Giovanni, al punto che Crisostomo sta commentando, e scopre che Gesù risponde. Forse, il Crisostomo leggeva un altro vangelo: o una pre-edizione di quello canonico, o un documento previo all'edizione.

Quando si fa una critica dei vangeli con intento apologetico, per mettere tutto insieme, tutto d'accordo — che poi si finisce per non mettere insieme, per non mettere d'accordo nulla — ci si basa spesso sulla testimonianza dei primi Padri della Chiesa: quando citano un testo un pò diverso da quello dei vangeli, li giustifichiamo dicendo che citavano a memoria, ma quando ci si chiede perché citavano a memoria, quando esistevano testi scritti, parliamo della formidabile capacità di memorizzazione degli antichi. Sono affidabili o no? Facendo tutto il conto che si deve fare della labilità della memoria umana, vi sono talora fenomeni difficili da spiegare: quando in una citazione di un vangelo, diversa dal testo canonico, fanno lo stesso "errore di memoria" un Padre a Cartagine e un altro ad Antiochia, le cose cominciano a complicarsi.

Si tratta, quindi, di un flusso che a un certo punto è stato bloccato, con un gesto che descriverei come coraggioso: perché la gente non era stupida, si accorgeva che c'erano delle discrepanze fra i vangeli, ma si rendeva pure conto del fatto che eliminare quelle discrepanze andava a scapito della loro freschezza.

Per lo storico, però, anche le armonie medievali (in antico inglese o in dialetto veneto) sono molto interessanti, perché sembrano basate su testi decisamente antichi. È una ricerca appassionante, che sembra condurre ad un "quinto" vangelo nascosto nelle pieghe della trasmissione.

Infine: qual è il punto di riferimento dell'evangelista, come di chi scrive i documenti, come di chi scrive il vangelo compiuto, come di chi scrive le armonie?

I vangeli che noi abbiamo oggi sono la metà di un dialogo: non in senso proprio, come le lettere di Paolo, in cui leggiamo solo una voce del rapporto epistolare, senza le risposte degli destinatari. Lo denuncia sempre Luca, affermando: ho scritto per te, Teofilo. Gli evangelisti hanno una loro personalità, come avevano già una loro personalità, lo vedremo, i documenti pre-evangelici; ma hanno una personalità anche i ricettori. Tutti, anche il copista, lavorano per qualcuno, nell'antichità. Hanno presente il referente; e come l'inizio del vangelo di Luca ci parla di Teofilo, così ci sono tanti Teofili, e questi Teofili sono delle comunità diverse per esigenze, per gusti letterari, per mentalità.

Vorrei insegnarvi qualche espediente di critica letteraria, che potrete utilizzare anche voi. Di per sé sarebbe bene poter compiere queste operazioni sul testo originale (originale: parola quasi priva di significato), meglio: sul testo greco dei vangeli, ma che si può fare anche su una traduzione annotata, come quella della Bibbia di Gerusalemme, e soprattutto sul testo di una sinossi, che è una pubblicazione dei vangeli su quattro colonne.

Una lettura attenta può, ad esempio, prendere atto di alcuni fenomeni segnalati dalle note, o talvolta dalle parentesi nel testo. Sono degli indicatori che ci permettono di cominciare a capire come è costruita una pericope.

Il metodo più semplice è il confronto. Consideriamo il racconto delle tentazioni nel deserto, i celebri quaranta giorni. Se leggiamo il vangelo di Marco, esso dice, in due righe (Mc 1,12-13): "lo Spirito, dopo (il battesimo), lo gettò fuori nel deserto e vi rimase quaranta giorni tentato da Satana, stava con le fiere e gli angeli lo servivano". Non si sa bene se gli angeli siano le creature spirituali o dei messi di qualcun altro: sono inviati che lo servivano.

In Luca e Matteo, il racconto si allunga notevolmente e ci fa sapere che Gesù aveva fame, perché per quaranta giorni non aveva mangiato: cominciamo a porci il problema del come abbia fatto a sopravvivere. È evidente, facendo un confronto banale, che il raccontino di Marco è stato ampliato per dare il senso teologico dell'avvenimento. Così, siccome una delle tentazioni è quella della fame, del mangiare, del trasformare la pietra in pane, che è una eco degli avvenimenti occorsi a Mosè e al suo popolo nel deserto, la "notizia di agenzia" molto corta sul soggiorno nel deserto viene ampliata con l'idea del digiuno, che rende la tentazione più viva. Così spariscono le fiere, poiché, anche nel deserto, dove mangiano gli animali può mangiare anche l'uomo.

C'è un espediente che ci permette di andare oltre, ma serve un testo greco e o una traduzione annotata: scoprire il "copista intelligente". L'antichità era formidabile, poiché la copiatura a mano presentava un grossissimo vantaggio: quando un'opera non piaceva non veniva più copiata, evitando di sprecare tempo ai posteri. Il copista corregge, perché ha una sua ideologia o perché ha dei suoi gusti linguistici. Non pensa mai che il testo originale sia diverso dalle sue correzioni. Crede che sia stato il copista precedente a sbagliarsi. Sa di non avere l'originale sotto mano e corregge senza scrupoli.

Spesso, sono solo correzioni di stile o di vocabolario: si va verso il greco più raffinato, rispetto al greco molto popolare dei vangeli; possono anche essere correzioni di indole teologica, oppure indicano che il copista si è reso conto che il testo, così come lo leggeva, non funzionava.

Nel vangelo di Giovanni, Giuseppe d'Arimatea va a chiedere il corpo di Gesù, per poterlo seppellire, ma Giovanni eredita una tradizione in cui è scritto: "vennero e presero il corpo di Gesù". È rimasto in qualche manoscritto. Giovanni, quindi, aggiunge Nicodemo, per spiegare questo vennero, ma lo fa entrare in scena dopo il verbo. Crediamo che la tradizione presentasse un plurale che non si riferiva né a Giuseppe d'Arimatea né a Nicodemo. Lo sappiamo, perché abbiamo un plurale in san Paolo, 1 Cor 15: "lo posero in un sepolcro". Giovanni ha ereditato questo versetto e l'ha tenuto così com'era, non risolvendo l'incongruenza. Il copista se ne è accorto, per cui in certe copie è conservata l'espressione "venne e lo prese".

Stesso fenomeno, sempre nel vangelo di Giovanni, il mattino di Pasqua. La Maddalena si reca al sepolcro. Negli altri vangeli sono tre donne che, vista la tomba vuota, tornano e dicono: "non sappiamo dove hanno messo il Signore". Giovanni ci presenta una sola donna, Maddalena, perché a lui piace mettere un personaggio solo (il suo è un vangelo recitabile, le persone hanno un nome ed un volto). Maddalena torna e dice: "non sappiamo dove l'hanno posto". Il copista se ne è accorto e corregge "non so". Poiché, tuttavia, a noi restano copie con l'una o l'altra versione, possiamo renderci conto del fatto che due tradizioni sono state fuse assieme.

Se la grammatica soffre, è perché le tradizioni si sono giustapposte.

Queste sono considerazioni che possiamo fare soprattutto sul testo greco. Invece, anche dal testo tradotto possiamo accorgerci della "struttura spezzata". Abbiamo detto che la scuola della Storia delle Forme ha scoperto delle formulazioni fissate per la memorizzazione, soprattutto negli insegnamenti di Gesù. Simili alla struttura di una poesia, costruite per meglio memorizzare. Se nel testo scritto una di queste strutture è alterata, ci si accorge che è stato inserito qualcosa. Nel discorso della montagna secondo Matteo abbiamo i tre inviti a pregare, digiunare, fare l'elemosina in segreto; la struttura dei tre periodi è sempre uguale, cambia solo il tema: elemosina, preghiera, digiuno. Tuttavia, quando si tratta della preghiera, è inserito il Padre nostro: "Voi, quando pregate, dite così". È chiaro che è una inserzione dell'evangelista (non che si sia inventato il Padre nostro, lo conosceva da un'altra fonte, tanto è vero che lo troviamo anche in Luca, un pò diverso): ritiene di inserirlo in quel contesto, perché si sta parlando della preghiera, ma notiamo che sono due o tre tradizioni messe assieme, ed è quello che ci interessa.

In modo analogo, un indizio che l'evangelista ha fuso fra loro tradizioni diverse è il fatto che sia obbligato a riprendere il discorso con una formuletta che, in termini tecnici, viene chiamata reprise. Un racconto o un discorso che non troviamo in un vangelo, appare in un altro, ma, dopo l'inserzione, quest'ultimo è costretto a riprendere il filo: "mentre diceva tutte queste cose..., passato all'altra riva..., quello stesso giorno...". Queste formule di passaggio, che spesso sono costruite in maniera molto ingenua, tanto che non capiamo su che sponda del lago di Genezareth si trovi Gesù in certi momenti, possono farci capire che l'evangelista ha inserito una tradizione diversa, e ci autorizzano a ricercare da dove viene questo materiale.

Così è per molti "doppioni". Troviamo certe frasi di Gesù, certi insegnamenti, ma anche miracoli, due volte, magari in contesti diversi.

Leggiamo il logion, l'insegnamento di Gesù: "se il tuo occhio ti dà scandalo cavalo, se la tua mano ti dà scandalo tagliala", nello stesso vangelo di Matteo, in un contesto in cui lo scandalo assume valenze sessuali, e in un altro in cui si parla, prendendo il sostantivo scandalo secondo l'etimo inciampo, di quelli che impediscono ai piccoli, ai deboli, di entrare nella comunità. È chiaro che la comunità ha riflettuto su quella parola del Signore e l'ha usata in due contesti differenti. Lo stesso insegnamento illumina due situazioni completamente diverse, poiché l'etimo autorizza le diverse applicazioni.

Questi doppioni sono estremamente interessanti, poiché manifestano molto spesso che un unico fatto è stato raccontato in due documenti e che questi sono stati uniti nei vangeli che conosciamo. In particolare, come vedremo, due documenti: un pre-vangelo scritto per gente di origine ebraica e un pre-vangelo scritto per gente di origine ellenistica. Il ché spiega perché ci sono, ad esempio, due moltiplicazioni dei pani. Spiega anche perché, se confrontiamo Luca con gli altri evangelisti, a proposito dell'agonia nel Getzemani, il terzo vangelo racconta di un solo allontanarsi del Signore dai discepoli, mentre negli altri Gesù va a pregare più volte e pronuncia delle frasi diverse, creando l'assurdo del ripetuto addormentarsi dei discepoli.

Nelle preghiere, in un caso parla dell'ora, della sua ora che si avvicina (tema che in Giovanni leggiamo mentre si esprimeva in pubblico, che è un contesto più logico, trasposto nel momento dell'agonia per motivi di intensità dottrinale e drammatica della scena), nell'altro appare il doppione, una frase che cita il bere la coppa. Siccome troviamo fusi questi due temi nell'agonia (l'ora e il bere la coppa), ma poi negli altri vangeli li troviamo separati e, soprattutto, Luca ne riporta uno solo, possiamo arguire che il doppione manifesta che la stessa frase di Gesù è stata riportata in due modi diversi: la coppa, capibile in ambiente ebraico (forse la frase originale), l'ora, capibile in ambiente ellenistico, dove Gesù sembra citare Socrate secondo Platone: "È ora che io me ne vada, voi verso la vita, io verso la morte. Chi abbia la sorte migliore, a tutti è nascosto, tranne che al dio". È ovvio che nella cultura ellenistica questo voleva dire molto di più.

Un altro sintomo di composizione molto interessante è quello dell' "ottica divergente".

Nei racconti di Giovanni, Matteo e Marco la donna che onora i piedi di Gesù è o Maria di Betania, in Giovanni, o una donna sconosciuta, che compie questo atto poco prima della passione del Signore. Il gesto viene interpretato come un'unzione previa, prima della sepoltura. Nel vangelo di Luca invece il fatto si svolge in Galilea, all'inizio del ministero del Signore. Già confrontando i testi di Matteo, Marco e Giovanni ci accorgiamo che vi è una duplice interpretazione: "unzione prima della sepoltura", problema tipicamente ebraico, e "la gratuità dell'amore", il buttare via tutti quei soldi per del profumo di nardo. Luca traspone tutto questo all'inizio della vita pubblica, non accenna ovviamente alla sepoltura, perché non segue la tradizione, tutta ebraica, della sepoltura. Accentua, invece, il tema della gratuità nell'amore, che per il terzo vangelo è molto importante.

Dopo di che, però, siccome ambienta tutta la scena in casa di un fariseo, tale Simone (che negli altri vangeli è Simone il lebbroso, o è Lazzaro in Giovanni; quindi probabilmente la tradizione di Simone, proprio perché è detto fariseo o lebbroso, è la più autentica), fa narrare a Gesù una parabola, per spiegare il gesto di quella donna: "tu non mi hai accolto profumandomi il capo, ella mi ha profumato i piedi; tu non mi hai dato un bacio, ella mi ha baciato i piedi". Nella parabola lo scambio avviene, però, in direzione contraria. Mentre nei fatti la donna ama Gesù e pertanto viene perdonata, nella parabola inserita c'è qualcuno a cui molto è stato perdonato, che per questo molto amerà: "secondo te amerà di più il debitore a cui è stato condonato poco, o quello a cui è stato condonato molto?". Simone il fariseo è costretto a rispondere: "quello a cui è stato condonato molto".

È così che quella donna diventa una peccatrice, mentre nel vangelo di Giovanni era Maria, sorella di Lazzaro, donna integerrima, e negli altri vangeli è un'anonima, ma non peccatrice. Luca si limita alla tradizione della gratuità dell'amore, che probabilmente viene da un documento adatto al suo ambiente ellenistico, lo connette al perdono ed ha, quindi, bisogno di dipingere la donna come una peccatrice (fra l'altro utilizzando il termine maschile hamartolòs, molto generico, mentre di solito attribuiamo a questa donna un peccato specifico: bastava che fosse una che vendeva pane ai romani, per essere considerata peccatrice. Poi, la tradizione successiva l'ho fusa con Maria di Lazzaro e Maria Maddalena, e l'ha mandata a far penitenza in Costa Azzurra).
L'inserto è un buon esempio di ottica divergente.

Infine, ci chiediamo come lo storico può leggere i vangeli.

Innanzitutto, ritenendo che le notizie storiche non sono necessariamente tutte e solo nei vangeli canonici. Malgrado un certo scetticismo quanto al poter raggiungere veramente la storia, possiamo ricostruire le più antiche testimonianze della fede, e quindi una storia delle idee, come abbiamo fatto leggendo il racconto della donna che unge i piedi di Gesù. Piuttosto che chiederci dove è avvenuto, se a Betania o altrova, fatto che non riveste che un interesse di dettaglio, accogliamo il messaggio dei vari racconti.

Accettando che anche altri documenti, le lettere di Paolo, i racconti cosiddetti apocrifi, contengano degli elementi di questa storia della percezione della persona di Gesù, possiamo completare in quadro. Teniamo, tuttavia, presente che ogni evangelista ha una sua personalità, che eredita l'indole dei documenti che utilizza, ma facendone una cernita. Luca, per esempio, sceglie quasi sistematicamente un documento fatto per il mondo greco romano. Altri no. Scrive per una comunità precisa, per dare solidità al messaggio da essi ricevuto.

Dobbiamo, quindi, scoprire la personalità letteraria e teologica di ciascun evangelista, e quella della comunità che ha di fronte, per capire il suo modo di utilizzare le fonti. Poi, se vogliamo anche noi raggiungere un minimo di solidità negli insegnamenti che abbiamo ricevuto, dobbiamo compiere quella che si chiama analisi diacronica: cercare di inserire i testi in una loro storia e capire come si sono sviluppate le idee, perché sono arrivate a noi in un certo modo. Non dobbiamo guardare ai vangeli come ad una superficie a due dimensioni, come spesso facciamo, ma considerare il loro spessore. Sono una testimonianza già matura della fede, non primitiva. Ogni tanto esprimiamo il bisogno di avere una testimonianza diretta, il più possibile vicina ai fatti, perché abbiamo una mentalità di tipo cronicistico (a parte che non è detto che più si è prossimi ai fatti, più la narrazione è veritiera. A me è stato insegnato che la narrazione dei fatti presenti bisogna farla cinquant'anni dopo, quando si comincia a sapere come le cose sono andate, a distinguere fra quello che la gente ha detto e quello che la gente ha fatto davvero). Ricostruire una genesi dei testi, una scala storica che ci permetta di osservare come la fede è cresciuta, mostra, se crediamo, al vivo l'azione dello Spirito Santo. Se non crediamo, fa vedere come sia stata percepita quella persona, Gesù di Nazareth detto il Cristo, un dato fra i fondamentali nella costruzione della civiltà, mediterranea prima, occidentale poi. È interessantissimo vedere come questi documenti giocano con la cultura dell'epoca.

Infine, non è del tutto male porsi qualche domanda sulla veridicità storica dei racconti, sapendo che abbiamo pochi documenti e che possiamo lavorare con un materiale relativamente ridotto.

 

Dibattito

Si ha l'impressione che in questi evangelisti ci sia chiaramente la volontà di evangelizzare, di convincere.

Sì e no. Come abbiamo letto nell'incipit del vangelo di Luca, la volontà è più che altro quella di confermare nella fede. In due modi. Il vangelo di Marco è così corto ed ancora più corto se togliamo il racconto della passione (13 capitoletti), perché fu redatto, pare, per preparare il racconto della passione in un ambito liturgico. Quindi, fu scritto per persone che già conoscevano gli insegnamenti di Gesù. Luca dice che lo fa per confermare la fede di Teofilo, che ha dei dubbi. Se siano stati utilizzati anche, sulle prime, per una evangelizzazione diretta rivolta a gente che non ne sapeva niente, è dubbio. Forse alcune parti, senz'altro l'annuncio del Cristo morto e risorto, anche se forse non nei termini che troviamo nei racconti della passione. Nei racconti di evangelizzazione in Atti l'annuncio è stereotipato, che sia fatto agli ebrei ellenizzati della sinagoga di Antiochia di Pisidia, ai giudei di Gerusalemme, oppure all'Areopago.

Possiamo anche pensare che circolassero delle raccolte di detti di Gesù, come di un saggio, per attirare l'attenzione. I vangeli, come sono costruiti oggi, sono soprattutto ad uso interno o almeno per la catechesi avanzata. Non solo: il passaggio da un documento fatto per il mondo ebraico a un documento ad uso del mondo greco romano già dimostra uno sforzo di decodificazione, perché la catechesi mistagogica, cioè il progresso nella conoscenza del mistero, richiedeva, se si fosse utilizzata solo la prima fonte, una tale conoscenza dei riferimenti vetero testamentari, che difficilmente possiamo ipotizzare in comunità d'occidente. Questa trasformazione manifesta una catechesi avanzata ed attori di questa catechesi che meditano. Tuttavia, i vangeli contengono senz'altro il kerygma, cioè l'annuncio fondamentale.

 

Prima di tutto la ringrazio per la semplicità con cui ci porta queste belle notizie; io vorrei un chiarimento per quanto riguarda il secondo punto di questi indicatori che ci ha dato, il copista intelligente; non ho ben capito su cosa si basava; copia su quello che gli piace? Ho scritto nei miei appunti: correzioni, perché il testo così non funziona. Ma in che senso? Perché rischia di trasmettere o di non trasmettere cose importanti.

Ci sono vari tipi di copista. Leggendo i testi di retorica antica, soprattutto i manuali scolastici, apprendiamo che il primo lavoro del maestro a scuola era confrontare i libri di testo degli allievi, perché erano scritti a mano (la emendatio). Così, se uno si chiamava Lucio Anneo Seneca, il papà che aveva i soldi mandava uno schiavo a fargli fare una copia delle Bucoliche di Virgilio presso la Biblioteca del Senato a Roma: una copia esatta, in bella pergamena di agnellino; se uno si chiamava Trebonio Garutiano,1 che soldi magari non ne aveva, andava sulle bancarelle lungo il Tevere ed acquistava esemplare in papiro, mal fatto, meno costoso, su cui lo stilo dello scrivano era stato deviato dalle nervature della fibra vegetale. Ovvio che, a scuola, la prima cosa che il maestro doveva fare era confrontare i diversi testi, per vedere qual era il più corretto: lavoro per noi inabituale. Nei quattro movimenti del copista, che resero proverbiale la frase "mentre la mano lavora, tutto il corpo s'affatica": leggere, memorizzare, scrivere, rileggere, può inserirsi l'errore. Ma può inserirsi anche per il fatto che il modello è anch'esso una copia; lo scriba può correggere quello che gli sembra un errore. Può darsi fosse davvero un errore: la parola non aveva senso a causa di una lettera sbagliata, oppure perché molti copiavano in lingue che non conoscevano bene. Talora, però, il copista ha dei preconcetti dottrinali: legge nel testo di Marco, in cui il Maestro è molto umano, che si commosse o addirittura si arrabbiò, e, da buon copista bizantino, fermo nell'idea della divinità di Cristo, sospetta che la copia che ha in mano venga da qualche eretico che invece vuole insistere sull'umanità di Cristo. Se poi è stato educato a Costantinopoli, mentre chi scriveva i vangeli non aveva fatto scuola come lui, cerca di trascrivere in un bel greco. In altri casi, corregge perché armonizza inconsciamente con gli altri vangeli. A volte, ed è quanto ci interessa, corregge perché si accorge che il racconto non funziona: per esempio, c'è un plurale dove dovrebbe esserci un singolare, ma, anche correggendo, pasticcia il testo un pò di più. Il testo dell'evangelista era illogico perché forse aveva unito assieme le tradizioni testimoniate da documenti diversi, senza accorgersi che il discorso non filava; ma il fatto che abbiamo un testo non corretto e quello del copista corretto ci fa dire o che il copista ha emendato per motivi ideologici, oppure che si è accorto di qualcosa di cui magari noi non ci accorgeremmo, perché per lui il greco era lingua materna. Sente una stonatura nel testo e a modo suo la segnala: per noi che cerchiamo di ricostruire i documenti prima dei vangeli, queste stonature sono fondamentali. Nelle edizioni greche dei vangeli, è stampato a piè di pagina un apparato critico, che riporta tutte le varianti di trascrizione. Tenete presente che il Nuovo Testamento è stato un best seller sin dagli inizi, il testo più copiato in assoluto nell'antichità. Molte delle copie che abbiamo sono di basso livello dal punto di vista della produzione, perché di uso popolare, altre di livello più alto, fino ai risultati eccelsi delle copie imperiali o papali.

Quella del "copista intelligente" è una tecnica un pò raffinata; la tecnica migliore, molto spesso, è quella dell'ottica divergente: i testi sembrano spiegarsi l'un l'altro, ma poi in realtà non si spiegano. C'è da chiedersi se per caso l'evangelista non abbia giustapposto due testimonianze, che gli venivano dai documenti previ, e perché l'ha fatto, qual era la sua intenzione interpretativa.

Ma in questa quantità di documenti anche previ ai vangeli, in queste operazioni alla "copia — incolla" si può dire in linguaggio più contemporaneo, qual è il metodo che è stato in realtà seguito dalla Chiesa nell'arrivare ai vangeli canonici; sicuramente si sarà trovata di fronte a tanti interrogativi, fermo restando che, come lei ha sottolineato, anche molti dei vangeli apocrifi contengono notizie storicamente valide, molto importanti; ma allora quale metodo in quel momento, quindi anche storicamente collocato, è stato seguito?

Direi che un metodo propriamente scientifico non fu utilizzato; non abbiamo documentazione diretta, e possiamo indovinare perché. C'è un processo che va dalla tradizione orale e scritta ai vangeli che conosciamo, frutto di una riscrittura, perché anche i vangeli canonici non sono stati scritti d'un getto; di Giovanni si dice che abbia subito cinque fasi di redazione. Erano utilizzati per la celebrazione liturgica o per l'istruzione catechetica, non interessava in realtà il copyright, venivano riscritti secondo le esigenze. Col tempo, il processo tende ad accentuarsi, dando origine a due fenomeni: i vuoti dei vangeli vengono riempiti, il ché è tipico dei vangeli apocrifi (che raccontano l'infanzia di Maria, l'infanzia di Gesù, cosa faceva da piccolo, come giocava, per accontentare la fantasia popolare); nello stesso tempo, si stavano creando delle armonie. Così si decide di fermarsi ai quattro vangeli canonici, intendendoli come regola della fede. Kanon era la canna che serviva a misurare: i vangeli sono la misura della fede. Gli altri sono validissimi, se non sono eretici. Alcune feste cristiane, celebrate dalla Chiesa d'Oriente e d'Occidente (la presentazione di Maria al tempio, o il dogma dell'Assunzione) vengono dai vangeli apocrifi. Solo alcuni furono rigettati, perché in questo voler riempire i vuoti si erano inserite delle eresie. Come si sia giunti al famoso canone muratoriano (scoperto da Ludovico Antonio Muratori, modenese) che, intorno al 180, fissa il numero dei libri sacri si può solo supporre. Primo: erano i testi forse più diffusi nelle Chiese. Secondo: quasi per un sensus fidei, per un "sentire" la fede, erano quelli circa i quali i credenti di allora si trovavano, nelle varie comunità, in accordo. Terzo: alcuni apocrifi sono poco credibili: per esempio il protovangelo di Giacomo, o l'infanzia di Maria. Sono racconti logici in Egitto, perché Maria piccolina viene portata al tempio e donata al Signore, nel tempio ricama il velo, mangia vicino all'altare. Ma non aveva senso in Palestina: una donna nel tempio? Vicino all'altare? Ci entravano solo i sacerdoti, neanche tutti gli uomini israeliti. Una donna, una ragazzina: educare una ragazzina? Ma una ragazzina deve imparare a cucinare e a cucire. Punto. L'harem del dio esisteva a Roma (le vestali) o in Egitto, non in Palestina. È chiaro che un documento del genere era difficile da imporre a tutte le Chiese, le quali potevano anche rispettarlo, poiché poteva andare benissimo come racconto devozionale in Egitto o a Roma.

I quattro vangeli, pur avendo anche loro delle tensioni fra le diverse culture, che si notano nel loro stesso tessuto, hanno una loro freschezza: gli apocrifi sono decisamente barocchi.

In italiano gli apocrifi son pubblicati dalla UTET o da Piemme, dei bei volumoni, ma ci son altre pubblicazioni, anche tascabili. Leggeteli perché alcuni son carini, veramente. Quelli eretici sono di solito gnostici: fanno girare Gesù per i cieli e fare cose strane, però altri son belli.

Si è scelto un minimo comune denominatore, fermando da un lato il processo di riempimento dei vuoti, dall'altro, di armonizzazione dei testi. Nei vangeli, i processi cominciavano già: il riempimento dei vuoti, per esempio, lo notiamo nei racconti dell'infanzia secondo Luca e secondo Matteo, che non troviamo in Giovanni e tanto meno in Marco, e che, fra l'altro, sono molto diversi fra loro.

Per ritornare alla tradizione manoscritta, vale ricordare un ulteriore fenomeno che, dall'antichità cristiana, continua ai giorni nostri: la "recensione". Col moltiplicarsi delle copie e delle varianti, spesso riconducibili a dei "prototipi", a dei codici ritenuti più autorevoli dagli amanuensi, si è reso necessario il lavoro di uno studioso che, scegliendo con criteri spesso soggettivi, ristabilisse un testo autoritativo. L'ultimo caso, prodotto di una società democratica, è stato quello recente di un'edizione del Nuovo Testamento ad opera di una commissione che presenta le varianti accettate segnalandole con una lettera, A, B o C, secondo il numero dei voti raccolti, a favore o contro, fra i componenti del gruppo.

 

Mi sembra un pò semplicistica la questione di questa interpretazione uno in una maniera , uno in un'altra, prendiamo un pò questo e un pò quello; e mi rifaccio soprattutto a certi testi che ho letto, che non c'entrano coi vangeli; quando la tradizione era orale, c'era molta serietà nel trasmettere i testi, per cui leggevo che se i sacerdoti del tempio - forse adesso parlo dell'Egitto o di un'altra cultura- si accorgevano di errori in un certo testo, addirittura veniva condannato a morte lo scriba che saltava una parola o che ne aggiungeva un'altra meno appropriata. Ora, è possibile mai che al tempo di Gesù fosse così semplicistica, così ingenua? E poi un'altra domanda: la famosa umanità di Cristo, di cui lei prima ha parlato, di uno degli evangelisti che dice che Gesù si commuove; ma Gesù non si commuoveva come uomo, non traspariva la sua umanità? Allora, che uomo era, se aveva l'umanità come l'abbiamo noi?

Comincio dall'ultima domanda, che è la più facile. Nel caso dell'umanità di Cristo, non dicevo che Cristo non si commuovesse o non ridesse o non piangesse, ma che il copista bizantino — siamo già in ben altro ambiente — che ha il Cristo Pantocrator negli occhi, di fronte a certe espressioni può correggere. Preferisce degli eufemismi.

Venendo alla prima domanda, bisogna stare molto attenti: la letteratura evangelica, rispetto per esempio alla letteratura dell'Antico Testamento, ma anche a quella a cui lei faceva riferimento, cioè alla letteratura scribale dei templi, si differenzia in due punti: primo non è trasmissione nel senso in cui lo è nei templi, ancora non è letteratura sacra, nè riproposizione di leggende avite. Si nota già, tuttavia, una venerazione del testo ricevuto, perché se no non riusciremmo a ricostruire i vari documenti confrontando i vangeli. Giovanni non avrebbe messo la tal frase in bocca alla Maddalena se non avesse rispettato la sua fonte. Nello stesso tempo, non ci troviamo nella scuola scribale di un tempio, ma in gruppi di origine popolare, e questo è il secondo motivo: la letteratura neotestamentaria, alle origini, è una letteratura popolare, non erudita. Con questo non voglio dire che fossero degli ignoranti, assolutamente no. A Roma e nei grandi centri dell'Impero, la cultura letteraria era appannaggio degli schiavi e dei liberti.

La trasmissione orale, invece, prevedeva delle regole più strette, ma più nella forma che nel contenuto. Non credo — riprendo un punto di prima — che nel primo secolo dopo Cristo, quando vengono prodotti questi testi, ci si affidasse solo alla memorizzazione. C'è una bella pagina che ho letto di recente, che dimostra che quando Odisseo si presenta nella reggia, al ritorno dai suoi peripli, uno dei proci gli dice: "non sembri un atleta che può gareggiare contro di noi con l'arco, sembri un nestès", che era il marinaio che si ricordava a memoria il carico della nave. Siamo in epoca omerica e la scrittura ha ancora un ruolo molto ridotto. In Oriente è già più sviluppata, almeno per fini utilitari. In epoca romana non c'è più il marinaio che si ricorda tutto. In latino, dimenticare si dice oblivisco, che significa "cancellare la tavoletta"; noi abbiamo recuperato l'idea del dimenticare (togliere dalla mente) o scordare (togliere dal cuore), ma per loro era divenuta talmente importante la scrittura come supporto alla memoria, che, quando uno si dimenticava di una cosa, radeva la tavoletta della sua mente; già gli aristotelici usavano l'esempio della tabula rasa per parlare dell'apprendimento umano. Lo scrivere diventa metafora del ricordarsi, come nel gergo dell'elettronica o dello sport il ricordarsi (to record) è metafora dello scrivere. Ora, il mondo ebraico era fra i più alfabetizzati nel primo secolo: faccio fatica a credere ad una fase puramente orale della trasmissione dei vangeli. In linea di principio potremmo anche trovare un autografo di Gesù. Abbiamo trovato un autografo di Bar Kokbah, un rivoltoso ebraico del 132; tutti sapevamo di lui e un bel giorno in una grotta è stata trovata una sua lettera. Dico questo per chi accusa gli esegeti di escludere a priori la veridicità documentaria. Le forme ritmate, quelle strutture di cui parlavo per esempio nel caso del digiuno, dell'elemosina e della preghiera, manifestano nello scritto il supporto alla memorizzazione: Gesù stesso, secondo l'uso dei maestri, usò tali tecniche. La parabola è il caso più ovvio.

Quell'ingenuità di cui parlava lei esiste in effetti, ma solo perché siamo al livello della trasmissione popolare, con una coscienza diversificata circa l'autorevolezza dei testi. I detti di Gesù, o i racconti della passione e della resurrezione, secondo me, ebbero subito un'autorevolezza maggiore che non altri testi. Ma non siamo nell'ambiente scribale dei templi, luoghi che servivano a conservare il prototipo delle opere più importanti.