MISSIONARIO IN GUATEMALA
Innanzi tutto mi presento. Sono un frate domenicano, diacono dall’8 maggio 2010, studente al III anno del Baccalaureato Triennale in Sacra Teologia presso la Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna con sede in Bologna. Scrivo al termine della mia esperienza missionaria in Guatemala, dopo il mio rientro in Italia. Trovare del tempo per scrivere questo articolo è stato veramente arduo, tuttavia ci tengo a raccontare la mia esperienza. Sono partito il 15 aprile 2011, il venerdì precedente la domenica delle Palme, dall’aeroporto di Milano e, dopo due scali, uno a Madrid e uno a Miami, sono giunto all’aeroporto di Città del Guatemala, la capitale, dove padre Ottavio mi ha fraternamente accolto. Dopo un pranzo dalle suore domenicane missionarie di San Sisto, siamo saliti sul suo pick-up, e ci siamo messi in viaggio per raggiungere la cittadina di Dolores, nel Petén, sede della missione, distante circa 400 Km da Città del Guatemala. La strada era a due corsie, percorsa da enormi autocarri e per lunghi tratti interessata dai lavori di ampliamento. Giunto nella casa missionaria di Dolores, ormai buio, sono stato accolto da padre Alberto e da quattro missionari laici che hanno deciso di spendere il proprio tempo e il proprio denaro a favore dei poveri e dei bisognosi: Franco, Rita, Paolo e Lilli. I miei primi giorni in Guatemala sono stati piuttosto duri. Ci sono voluti almeno quattro giorni per abituarmi al fuso orario locale (ben otto ore di differenza rispetto all’Italia). Mi alzavo presto al mattino, seguivo tutto il giorno i padri nelle aldeas (= villaggi), viaggiavo diverse ore in pick-up su strade non asfaltate e spesso dissestate, vedevo intorno a me tanta povertà e tanto analfabetismo, cercavo di proteggermi dai morsi di zanzara e altri insetti molesti, pranzavo con il cibo locale che mi veniva offerto su scodelle di plastica e senza posate, e di sera, dopo il rientro, ero talmente stanco che andavo subito a dormire senza cenare e senza lavarmi. Ogni volta che mettevamo piede in una aldea, venivamo circondati da tanti bambini curiosi e affettuosi che si facevano fotografare volentieri e poi si avvicinavano per vedere la fotografia riprodotta sul display della fotocamera digitale.
Nell’aldea di Los Olivos, la prima che ho visitato, abbiamo regalato loro caramelle e biglie: i bambini si sono accalcati l’un l’altro intorno a noi allungando le mani per riuscire ad averne qualcuna. Mentre i padri confessavano e presiedevano le celebrazioni, io svolgevo il mio ministero diaconale, affiancando sempre uno di loro, proclamando il vangelo in lingua spagnola e servendo la santa Messa. In due occasioni ho anche battezzato diversi bambini: durante la veglia pasquale nella chiesa parrocchiale di Nuestra Señora de los Dolores e nell’aldea di San Marcos. Le chiese erano in genere piccole, con il pavimento in cemento, ma in alcuni casi in terra battuta, dotate di semplici panche di legno e coperte da un tetto in lamiera; l’altare era un semplice tavolo di legno. Il pranzo ci veniva offerto dagli abitanti del villaggio: una scodella di riso e fagioli neri o di riso e pollame, e tortillas di mais. Ovviamente l’igiene lasciava un po’ a desiderare, ma io ho mangiato sempre tutto quello che mi veniva offerto, con le mani perché nelle aldeas le posate sono un lusso riservato a pochi, lasciando che fosse lo spirito di solidarietà a prevalere. Per evitare infezioni ho prudentemente evitato di bere la loro acqua: bevevo solo l’acqua in bottiglia che portavo con me nello zaino.
Le abitazioni erano poverissime: un’unica sala delimitata da tavole di legno, con pavimento in terra battuta e tetto in foglie di palma di guano, un tipo di palma ad alto e sottile fusto, o in lamiera. Per cucinare utilizzavano un robusto tavolo di legno, sul quale era posto uno strato di cemento, dove su dei sostegni, al di sotto dei quali ardeva la legna, venivano appoggiate le pentole. Per dormire si servivano di letti di legno (senza materasso) e di amàche. Gli animali erano allo stato brado: a parte le mandrie di bovini che in genere stavano nei recinti, era la norma incrociare per strada polli, galline, pulcini, tacchini, maiali, cavalli, mucche, cani. Spesso ho visto gente fare il bagno nel fiume, in genere vestita o comunque con alcuni indumenti addosso, o lavarsi a pezzi nelle fontane o nei ruscelli. La mia prima settimana in Guatemala, dunque, è trascorsa celebrando i riti della Settimana Santa, del Triduo Pasquale e di Pasqua nella chiesa di Nuestra Señora de los Doleres e nelle aldeas. Insieme ai tre padri domenicani, alle due coppie di laici e a due accoliti guatemaltechi, dopo un lunghissimo viaggio in pulmino che ha incluso l’attraversamento di un fiume su di una grande chiatta, ho partecipato alla santa Messa del Crisma presieduta da mons. Mario Bernardo Fiandri, vicario apostolico del Petén. Durante la seconda settimana, ho avuto l’opportunità di fare tre gite: due escursioni nei siti archeologici di Ixcún e Tikal, ricchi di stele, acropoli, templi, piazze e strade dell’antica civiltà maya, e una visita alla cittadina di Flores, sul lago Petén Itzá. Ho conosciuto le suore domenicane missionarie di San Sisto a Santa Elena, il cui convento ospita un orfanotrofio femminile, e quelle di Poptún. Un giorno ho aiutato i missionari a confezionare e a spostare quasi duecento sacchi, pesanti diversi chili, pieni di indumenti e di scarpe da distribuire ai catechisti, che a loro volta li avrebbero distribuiti alle persone bisognose dei loro villaggi. Ho visitato il centro infantile e nutrizionale di Dolores, dove le suore vincenziane si prendono cura dei bambini malati e denutriti del territorio. Il 3 maggio scorso sono rientrato a Bologna, nel convento patriarcale di San Domenico, dopo aver viaggiato su un pick-up, quattro aerei, due treni e un autobus. Al termine di questa esperienza missionaria devo ringraziare di cuore il mio priore provinciale, padre Daniele, che mi ha inviato in Guatemala. Se non mi avesse detto “Ti mando in Guatemala”, probabilmente non ci sarei mai andato di mia iniziativa. Questa missione, a pochi mesi di distanza dall’Ordinazione presbiterale, ha contribuito alla mia formazione umana e sacerdotale. Ringrazio i padri Ottavio e Giorgio, in missione permanente nel Petén, che mi hanno fraternamente accolto e guidato. Ringrazio inoltre padre Alberto, Franco, Rita, Paolo e Lilli, con i quali ho vissuto nella casa missionaria e condiviso mensa e attività non solo impegnative e stancanti ma anche ricreative. Auguro a tutti di fare almeno una volta nella propria vita un’esperienza missionaria di collaborazione e di solidarietà con i poveri.
Fra Manolo M. Puppini O.P.