Venerdì 16 aprile- Mercoledì 21 aprile 2010.
Ho iniziato a scrivere il 16 aprile ma, poiché i collegamenti sono abbastanza instabili (P. Alberto trascorre intere mattine e pomeriggi al punto internet – un buco di pochi metri quadri, caldissimo e affollatissimo – per trasmettere un foglio di diario…) ogni giorno c’è una piccola aggiunta come in questo caso.
Il racconto riparte da domenica 18 alle 19,30 ora locale. A quest’ora da voi si dorme della grossa, sono le 2,30 del mattino, invece io e Franca stiamo aspettando p. Ottavio, p. Alberto e Rita, impegnati a Poptùn il primo e nella Messa serale gli altri due, per “compartire” insieme la cena. Questa mattina ho ascoltato con Franca la Messa celebrata da P. Giorgio, mentre Rita era impegnata in una traduzione su Tikal dallo spagnolo all’italiano, per gli alunni della scuola di P. Giorgio, P. Alberto invece preparava l’omelia per la Messa serale. A volte, pur avendo tanto da raccontare, per scrivere abbiamo bisogno della giusta ispirazione. Continuiamo ad avere problemi con le connessioni. La chiavetta che ho acquistato a Poptùn, con l’aiuto di Romeo, da usare con il mio portatile o con quello di P. Alberto, non funziona. L’icona che indica che il collegamento è attivo, lampeggia, segno evidente che “funziona”, anzi dovrebbe. Quando si cerca di entrare sul sito per scaricare o mandare la posta, la risposta è sempre la stessa: “Server in errore…”. Non rimane che mettersi il cuore in pace e andare al punto internet e dopo un paio d’ore, se si è fortunati, si riesce a scaricare la posta. Stendiamo un velo pietoso sulle comunicazioni guatemalteche....
Vi volevo parlare della mia visita all’aldea di San Marcos assieme a P. Ottavio, Rita, Franca e Ramòn. Nonostante sia venuto in Guatemala già 4 volte questa è la prima volta che riesco a visitare questo villaggio. San Marcos è stata anche l’aldea del “battesimo” di P. Alberto quando è iniziata la sua avventura guatemalteca. Ricordate la sua foto a dorso di un cavallo-mulo? Ecco è quella. Alcuni giorni prima, Carlos, l’economo del collegio di p. Giorgio, mi aveva detto che nel corso della settimana santa sarebbe andato a San Marcos a trovare i suoi, e così con lui ho preso l’impegno che, se ci fosse capitata l’occasione di andare, ci saremo incontrati.
Ramòn è uno studente del collegio, e la sua famiglia vive proprio a San Marcos. Sapendo che nel pomeriggio con P. Ottavio saremmo andati al suo villaggio, per poter salutare i suoi parenti ci ha accompagnato nel giro alle altre aldee. Fin dal mattino è venuto con noi a Nuevo Progreso. Di questa aldea vi ho già parlato….
Parlarvi della strada oramai non fa più novità nel senso che i sobbalzi e le capocciate sono cosa acquisita, unica e sempre nuova, purtroppo, la desolazione dei luoghi attraversati.
Arriviamo a San Marcos e il primo colpo d’occhio è bellissimo. Alberi e tanto verde tutto intorno. Scendiamo dalla macchina e Ramòn ci invita subito ad andare con lui perché vuole presentarci la sua famiglia. Dopo aver avvisato P. Ottavio, che nel frattempo stava prendendo contatti con due coppie di sposi che avrebbe dovuto sposare il 25 di aprile, tutti insieme in fila indiana ci avviamo lungo il sentiero. Attraversiamo un campo che viene usato anche come campo di calcio. Molti bambini giocano senza nessun tipo di scarpa… Le prime capanne che incontriamo sono fatiscenti, davanti a qualcuna di queste ci sono uomini “aborraciati” (un po’ brilli) e davanti ad una di queste incontriamo un signore con sombrero: Ramòn ci presenta suo padre. E’ un uomo sulla quarantina tutto sommato ben portati, ha una camicia aperta sul petto e un paio di stivali da cow boy. Non so perché, ma subito non mi fa una buona impressione, sarà per l’aria troppo spavalda, sarà per la camicia ostentatamente aperta sul petto; lo seguiamo e, mentre ci fa strada, ci addentriamo nella giungla: un po’ di ombra fa piacere dopo il sole preso nell’attraversare il grande campo da calcio. Dopo i primi alberi ecco un grande spiazzo “disboscato” da poco con totale distruzione della vegetazione, di nuovo un sole a picco sulla testa. Chiedo come mai siano stati tagliati tutti quegli alberi e il signore mi risponde che è stato fatto per impedire l’avvicinamento dei serpenti… Arriviamo ad una capanna e Ramòn ci invita ad entrare nella sua casa: c’è molto buio, tanta sporcizia, panni sporchi da per tutto e in un angolo una signora che allatta una bambina di circa un anno e che è una sorellina di Ramòn. Intorno ci sono diversi bambini, molto sporchi e con abiti a brandelli. Con Rita e Franca corre veloce uno sguardo che lascia intendere il disagio provato. Inizio a parlare con il padre di Ramòn e subito, come se non stesse aspettando altro, racconta delle grandi difficoltà che incontra nel portare avanti la famiglia. Ci racconta del lavoro che scarseggia, che è stato sfollato per dieci anni in Nicaragua quando in Guatemala imperversava la guerra civile. Gli chiedo quanti figli ha e dice di averne dodici, due sono morti altrimenti sarebbero stati quattordici… Evitando sguardi tra di noi, cerchiamo di non sembrare sorpresi per non mettere in “difficoltà” il padre di Ramòn. E’ solo un mio pensiero…. A parer mio non penso che il signore abbia tanta sensibilità da sentirsi in difficoltà, visto il poco rispetto dimostrato finora nei confronti della moglie. A proposito di questo: una notizia fresca fresca apparsa sul giornale nazionale del Guatemala il “Prensa Libre” riporta che dall’inizio dell’anno (meno di 4 mesi) sono state uccise 289 tra donne-mogli-mamme… Piuttosto ad essere in difficoltà ci è sembrato Ramòn… Torniamo alla famiglia di quest’ultimo. Non so se siamo riusciti a nascondere la sorpresa per la notizia, intorno a noi i bambini continuano a correre e a circa dieci metri di distanza una ragazza di circa diciotto anni si sta facendo la “doccia” noncurante della nostra presenza. E’ vestita con una gonna, porta il reggiseno, ha i capelli insaponati e si versa dei catini di acqua sulla testa. Qui le donne si lavano vestite, si usa così, come faranno è un mistero.
Ramòn è vicino a noi e tiene in braccio una bambina, è un’altra sua sorellina. Suo padre ci racconta che da sfollato, in Nicaragua, “abitava” in un recinto di circa trecento mq assieme ad un centinaio di persone e lì dovevano “soggiornare” quando non lavoravano, stare e fare tutto quello che era necessario per la sopravvivenza. Ci racconta che se per caso qualcuno superava di un metro l’uscita in orario fuori dal consentito, una sentinella sparava un colpo di avvertimento. Se il malcapitato usciva e si allontanava per più di due metri il colpo non era più di avvertimento ma era diretto alla persona. Noi ascoltiamo e siamo come imbambolati. Il racconto di questo signore finisce come sempre con riferimento alle difficoltà economiche. Non ci vuole tanto per capire che indirettamente ci sta chiedendo dei soldi che non possiamo dare per non creare precedenti e anche perché su questo P. Ottavio è stato molto chiaro: la gente non deve solo aspettare, ma deve darsi da fare. Non vediamo l’ora di andare via e tornare verso la chiesa dove sicuramente P. Ottavio ha iniziato le confessioni. Il padre di Ramòn, prima di lasciarci andare, ci chiede di fargli delle fotografie con i suoi ragazzi e sua moglie. Siamo disponibili e subito alcuni bambini, Ramòn, il padre e la mamma si mettono sotto una palma. Dopo aver scattate alcune foto prometto che alla prima occasione le avrei fatte stampare e gliele avrei consegnate. Rita e Franca iniziano a salutare e a ruota pure io: non vediamo l’ora di andarcene. Ramòn ci accompagna fino alla chiesa e poi ritorna a casa sua; dicendoci che ci avrebbe raggiunto più tardi.
Davanti alla chiesa troviamo un signore ben vestito e con un sorriso grande da orecchia a orecchia, si avvicina e ci dice che ci vuole invitare a casa sua. Non lo conosciamo, P. Ottavio si accorge della nostra titubanza e ci informa che quel signore è il papà di Carlos e che è venuto già una volta a cercarci. Siamo appena tornati dalla casa di Ramòn e siccome P. Ottavio è alle prese con le confessioni e la Messa inizia quando queste finiscono, tutti insieme seguiamo il papà di Carlos.
La strada che percorriamo è molto bella perché interamente immersa nel verde della giungla con i suoi “rumori” tipici, intorno tantissimi uccelli; dopo circa una quindicina di minuti arriviamo in uno spiazzo che a differenza della casa di Ramòn è anch’esso immerso nel verde. La sensazione di fresco è piacevole e per quanto intorno ci sia terrà battuta, tutto è molto pulito. Non si incontrano le immancabili buste di patatine o lattine di birra o di pepsi o scatole di biscotti. Tutto è molto ordinato, i bambini sono puliti e ben vestiti. Dopo un po’ arriva Carlos che, avvicinandosi sorridente, ci dice che se non lo avessimo preceduto, si stava preparando per venirci a raggiungere alla chiesa. Ci sediamo tutti insieme per parlare del più e del meno e con l’occasione ci complimentiamo per l’ordine e la pulizia che ci circonda. Mi accorgo che sia Carlos che il padre sono contenti di questi complimenti. Ad essere sinceri è la prima volta che abbiamo il piacere di notare una cosa del genere. Abbiamo visitato tantissime capanne, mai nessuna così pulita e ordinata. Questa è la conferma che se si vuole, nonostante si abiti in capanne, si può essere decorosi e puliti, il che fa bene alla vista e alla… salute. Ci offrono da bere e come sempre per i miei problemi ben noti sono costretto a rifiutare. Rita e Franca accettano. Dopo un po’ i rintocchi della campana/cingolo ci ricordano che siamo lì per la Messa pasquale. Il padre di Carlos ci riaccompagna, ma questa volta ci fa fare un’altra strada ancora più immersa nel verde e ancora più bella.
Arriviamo giusto in tempo per l’inizio della Messa, la Chiesa è stracolma di gente e questo è un segno positivo per l’aldea e di conseguenza per P. Ottavio. Al termine della celebrazione, durante la quale P. Ottavio ha lavato i piedi a 12 tra giovani e meno giovani, e dopo aver salutato tutti, si riparte per andare a riprendere gli altri a la Esmeralda. E’ buio pesto ma il cielo è tappezzato di stelle ed è una visione stupenda. In macchina raccontiamo a P. Ottavio della visita alla casa di Ramòn e ciò che ci dice ci lascia di stucco. Ci racconta che quel signore, oltre ad essere quasi un alcolista, ha grossi problemi di relazioni familiari. Non ci sono parole. Ecco risolto il senso comune di disagio provato appena incontrato quel signore e soprattutto, ora capiamo il disagio manifestato da Ramòn.
Quando arriviamo a La Esmeralda, dove si trovano gli altri, la prima cosa che ci dicono è riferita al cielo stellato e al fatto che mai avevano visto una moltitudine così immensa di stelle. Roberto e Alberta sono entusiasti. Roberto, preso dall’entusiasmo, quasi si mette a fare una specie di danza propiziatoria, a cosa non si sa, ma è divertente da vedere, e così facendo trasmette a tutti allegria e buon umore. Dobbiamo ripartire per rientrare. Dopo essere saliti tutti in macchina riprendiamo la strada che ci porta verso Dolores. Dentro la macchina non ci stiamo tutti pertanto alcuni vanno in palangana.
In un precedente diario vi avevo parlato dei lavori di completamento della chiesa di Sucultè. Ci eravamo lasciati informandovi di aver consegnato a P. Ottavio i soldi per il pvimento e che eravamo in attesa che Don Tino si informasse del prezzo sia del ferro che del cemento. Poiché le notizie non arrivano, tutti insieme andiamo alla “ferreteria” per chiedere il prezzo del ferro da 4 mm. che ci dicono costare 270 quetzales al quintale. Per fugare ogni dubbio, poichè mi sembra un prezzo molto basso anche per il Guatemala, chiedo quanti ferri vanno in un quintale. Mi risponde il ragazzo preposto alla vendita che in un quintale vanno 30 ferri. Non capisco come mai così pochi, possibile che una verga di ferro, da quattro mm. Di diametro, anche se lunga 6 m. pesi così tanto? P. Ottavio, vista la mia perplessità, mi dice che qui il quintale non sono 100 kg come quasi in tutto il mondo: qui in Guatemala il quintale corrisponde a 48 kg. Ecco scoperto l’arcano e spiegato il perché di così pochi ferri per un quintale... Decidiamo allora di andare a Poptùn, forse lì riusciamo a trovare un prezzo migliore. Mentre andiamo mi viene in mente di chiamare Romeo visto che, lui essendo un piccolo imprenditore, potrebbe farci avere ciò che cerchiamo ad un prezzo più basso. Arrivati a Poptùn incontriamo Romeo e con lui andiamo dal suo rifornitore dove Romeo spunta un prezzo di 230 quetzales al quintale: ottimo!!! Ordiniamo 10 quintali di ferro (quanto previsto nei nostri precedenti calcoli), il cemento era già stato acquistato da Don Tino di Sucultè (se avessimo provveduto anche per quello avremmo risparmiato altri 10 quetzales a sacco). Pazienza, è bene che guadagnino un po’ tutti. Il giorno dopo non possiamo andare a Sucultè a seguire i lavori per la posa del pavimento perché abbiamo l’impegno delle lezioni di Italiano nella scuola di p. Giorgio ed anche perché il camion con il materiale non è arrivato in tempo all’aldea. L’impegno a Sucultè viene rimandato a sabato…
Eccoci a Sabato, alle otto del mattino, con P. Ottavio andiamo a Sucultè, arriviamo nei pressi della chiesa e lì troviamo più di una ventina di persone, tra giovani e meno giovani, che si danno da fare per impastare sabbia, cemento e ghiaia. Per arnesi hanno delle vanghe e delle pale tipo quelle che una volta, quando ancora esistevano i treni a vapore, venivano usate dai macchinisti per mettere carbone nella caldaia e creare così la forza motrice per il movimento. E’ veramente un bel vedere, tutti insieme indaffarati per la realizzazione di un bene comune: la chiesa.
Come mi è capitato di scrivere in precedenti diari, la chiesa in questi villaggi del Guatemala, non è solo centro di culto ma anche centro di aggregazione e di socializzazione. Poco distante dalla chiesa in una casetta fatta, come si usa qui, di assi di legno, una quantità imprecisata di donne, ragazze e bambine che lavoravano per preparare il “caldo de pollo” (brodo di pollo) e tortillas per gli uomini che lavoravano. Ogni tanto due ragazze si allontanano dalle cucine con delle brocche di plastica piene di un liquido che sembra latte e caffè. Si avvicinano ai lavoratori porgendo loro un bicchiere pieno di questa bevanda che viene vuotato tutto d’un fiato. All’interno della chiesa, ho piacere di notare che è stato tenuto conto del suggerimento di creare un sottofondo di pietre per sollevare il pavimento di circa 20 cm, sul quale poggiare una rete preparata con i ferri acquistati a Poptùn e sul quale versare per ultimo l’impasto appena preparato. Da un approssimativo calcolo fatto guardando la lena con cui tutti lavorano, in giornata finiranno di “gettare” tutto il pavimento per complessivi 185 mq. visto lo stato di avanzamento lavori e la “grinta” con la quale tutti si danno da fare. Con P. Ottavio, decidiamo di tornare a Dolores e prendo accordi con Don Tino per tornare nel pomeriggio, approfittando del fatto che P. Ottavio ha un incontro a Las Brisas e quindi deve ripassare per Sucultè.
Nel primissimo pomeriggio, dopo quarantacinque minuti dei soliti sobbalzi arriviamo nuovamente a Sucultè. Anche in nostra assenza i lavori sono proseguiti a oltranza: sono a buon punto ed il pavimento è stato realizzato al sessanta per cento. Gli uomini ci sono ancora tutti. I giovani in particolare, sempre sorridenti, sono i più imbrattati di cemento. Il trasporto viene fatto con vecchie carriole o servendosi di malconci secchi di plastica trasportati a spalle, pieni all’inverosimile: quello che arriva a destinazione è ben poco rispetto a quello che si versano addosso, ma il tutto viene recuperato.
Dall’altra parte le donne sempre più indaffarate, lavorano per preparare anche la cena alla quale tutti i presenti parteciperanno e alla quale anche noi siamo stati invitati.
Mentre con Franca aspettiamo il ritorno di P. Ottavio, una signora ci invita ad andare con lei perché vuole mostrarci il progetto della coltura del caffè. In un primo momento non capisco cosa effettivamente voglia farci vedere e, mentre andiamo, le chiedo di parlare più lentamente “despacio”, affinché possa capire bene ciò che vuole mostrarci. Poco dopo arriviamo nei pressi di una capanna abitata da un’altra famiglia, ci fa strada e ci porta a vedere un orticello dove ci sono tre rialzi di terra coperti da segatura. Per me tutto è ancora un enigma. Ad un certo punto la signora si china e ci fa vedere che delle piantine iniziano a germogliare. Ci spiega allora che sono piantine di caffè ed appena queste saranno ulteriormente cresciute verranno messe a dimora in vasetti pronti per essere venduti e successivamente ripiantate. Noto che la terra è molto secca e le suggerisco, visto il caldo di questi giorni, di innaffiare le zolle molto bene e meglio se fatto la sera all’imbrunire. La donna, mi sorride contenta perché mi vede interessato. Da lì ci spostiamo e andiamo verso la sua capanna. Arrivati, ci porta in un pollaio all’interno del quale ha ricavato un soppalco in canne dove si trovano tre recipienti dentro i quali alcune galline covano le uova: è un allevamento di pulcini e la signora ci spiega che anche quello è un progetto ideato e voluto dalla Diocesi di Dolores per lo sviluppo della popolazione.
Tutto intorno un disordine e una sporcizia indicibili. Passando davanti alla sua capanna vedo un uomo sdraiato su un’amaca. La signora allora ci racconta che quel signore, dal quale ha avuto tre figli, non è suo marito ma è uno con il quale ogni tanto convive… Quando l’uomo si stanca di stare a Naranjon con la sua “vera” compagna di vita, dalla quale ha avuto altri tre figli, arriva da lei e si piazza lì per un paio di giorni fintanto che non arriva di nuovo la necessità di un cambio di donna… Sono storie che hanno dell’incredibile. Ad un certo punto mi faccio coraggio e chiedo l’età a questa signora: ha solo 33 anni, poco più di una ragazza, a prima vista le avrei dato almeno una cinquantina d’anni tanto è sciupata. Ha avuto un’infanzia molto difficile e mi racconta, che quando aveva poco più di tre anni il padre l’ha regalata ad una famiglia perché non aveva la possibilità di mantenerla… Questo genere di “regalie” in Guatemala pare una cosa molto comune e ricorrente.
Sono sempre più incredulo nel sentire tutte queste cose. Con questi pensieri che ci occupano la mente, insieme a Franca ritorniamo verso la chiesa dove nel frattempo è arrivato P. Ottavio e dove il pavimento è completamente ultimato. Tutti, grandi e piccoli, seduti per terra aspettano che le signore servano la cena a base di brodo di pollo frijcoles/fagioli neri e contorno di tortillas….
Salutiamo tutti, complimentandoci ulteriormente per il loro impegno, saliamo in macchina e rientriamo a Dolores…
Ci sarebbero ancora parecchie cose da raccontare. Spero di riprendere a scrivere quanto prima anche perché questa sera durante la cena P. Ottavio ci ha raccontato un altro episodio, che ha dell’incredibile, appena capitato ad un suo catechista che si chiama Julio e presso il quale siamo stati ospiti a pranzo a casa sua quando siamo stati a Naranjon e dove Roberto, mentre si andava, è scivolato cadendo e slogandosi un polso.
Domani saremo ospiti a cena dalle Suore domenicane di Poptùn, vogliono ricambiare la nostra ospitalità dei giorni scorsi.
L’aria del rientro inizia a fari sentire. Personalmente devo dire che la cosa mi dispiace tantissimo anche perché il sapere di essere utili a qualcuno in un ambiente come questo, ti fa sentire diverso, ti fa sentire… bene.
A presto.
Francisco
Lunedì 19 aprile
Buenos dias amigos.
Sono Rita, purtroppo l’aria di rientro si fa pressante e personalmente mi mette un po’ di malumore. Il tempo è volato: due mesi, che sembravano tantissimi, stanno lasciando lo spazio al bilancio di questa ulteriore esperienza.
Ma alla partenza manca ancora una settimana perché con P. Alberto abbiamo deciso di riprendere la strada di ritorno con un po’ di anticipo, attraversando il Guatemala in macchina (con Romeo e la moglie Nidia) per arrivare alla Capitale e conoscere altri lugares (luoghi).
Il verano (estate) quest’anno è molto ballerino: di mattina il cielo è abbastanza limpido, mentre di pomeriggio si annuvola quasi sempre e molto spesso piove a dirotto. L’altra notte ha fatto un diluvio universale che è durato circa 2 ore con tuoni e fulmini; il tetto (di lamiera) faceva un rumoraccio che ci ha fatto parecchio compagnia. L’indomani mattina il sole spaccava… le pietre e l’umido era insopportabile. Le escursioni termiche si fanno sentire e spesso boccheggiamo.
Mi raccontava P. Ottavio che in questi giorni per radio e televisione i campesinos vengono invitati a non andare nei campi a seminare perché non è tempo!!!! Qui non si va con il barometro o con le previsioni del tempo: i campesinos identificano la pioggia con il momento adatto alla semina qualunque sia la stagione e - come in questo periodo - rischiano di vedere bruciato il loro raccolto. Abbiamo portato delle sementi dall’Italia (radicchio, bietola/acelga, pomodoro/tomate, lattuga/lechuga, cipolla/cebolla, ravanello/rabano, finocchi/hinojo ecc) con l’intenzione di darle a P. Ottavio affinché, con il promotore dell’agricoltura, verifichi la possibilità di coltivazione di questi ortaggi. Poiché le bustine erano tutte doppie, ne abbiamo dato la metà a Adàm, il fidanzato di Canche (la sorella di Titti) e che si sposerà ad ottobre (siamo stati invitati). Adàm è agronomo e quindi gli abbiamo spiegato di provare quelle colture, gli abbiamo indicato il sito internet al quale può collegarsi per avere informazioni riguardo i periodi di semina e le modalità (la semina ad ottobre italiano è diversa da quella del Petén/Guatemala). Inoltre dovrà tenersi in contatto con P. Ottavio ed il promotore agricolo della Parrocchia (Emilio) per far decollare il progetto coltura “Hortalizas/ortaggi” che può essere una buona iniziativa in alternativa ai soliti mais e frijoles.
Oggi a scuola con i ragazzi. Nei giorni scorsi, per invogliarli ad esprimersi in italiano, visti gli studi che stanno facendo e vista anche l’attività che andranno a svolgere, abbiamo chiesto che ci scrivessero qualche pensiero su Tikal. Ne sono venute fuori “tesine” da guida turistica tradotte dal computer con il traduttore automatico!!!! che Vi lascio immaginare. A parte le traduzioni irripetibili (per decenza), è stato tradotto che negli anni passati Tikal, per la sua storia, i reperti archeologici, la flora e la fauna, è stata dichiarata Parco e Monumento Nazionale e “io mangio” (como = presente verbo mangiare 1^ persona) Patrimonio dell’ Umanità. In questo caso il “como” stava per “come”!!
Con i ragazzi stiamo anche cantando in italiano (Azzurro) e quelli del IV° anno sono i desiderosi di imparare. Sono i più piccoli (la prima superiore) ma qualcuno ha anche più di 20 anni.
Qui la scuola “dell’obbligo” comincia quando si può, non sempre l’anno scolastico viene portato a termine perché probabilmente le esigenze di famiglia sono molteplici e non si può assicurare una presenza scolastica costante; la voglia non è tanta e nessuno fa caso se sai leggere e scrivere (cioè non vengono i Carabinieri a casa a costringere i genitori a mandare a scuola i figli !!). Tobi, il bambino di 11 anni a cui Francisco due anni fa ha comprato le scarpe perché non le aveva mai avute, è ancora …in 1^ elementare: alla famiglia, pur iscrivendolo a scuola, conviene di più mandarlo a raccogliere lattine vuote di birra, di coca-cola o quant’altro da rivendere, piuttosto che mandarlo a scuola.
Alla “primaria” (la nostra scuola elementare che qui dura sei anni) vanno vestiti così come capita; invece chi va al ”basico” (la nostra scuola media - tre anni) indossa una divisa a seconda del “barrio – rione”. Le ragazze indossano la camicia bianca con una fiocco a modo di cravatta e la gonnellina plissettata a quadri (i colori dei quadri sono diversi a seconda della scuola). I maschi camicia bianca e pantaloni scuri.
Alla scuola di P. Giorgio (le nostre superiori) la divisa è costituita da pantaloni verde scuro e camicia bianca, sia per i maschi che per le femmine. Gli studenti vengono da molto lontano, alcuni vivono a pensione, soprattutto le femmine; circa 60 invece (solo maschi) vivono nel collegio, una diecina di questi sono mantenuti agli studi dal collegio in quanto le loro famiglie, poverissime, non possono assolutamente contribuire al loro mantenimento. Alcuni di questi ragazzi, per poter avere qualche soldino in tasca, lavano la biancheria ai “benestanti”, aiutano gli altri nei compiti, si prestano a fare dei lavoretti e così si sentono meno di peso alla comunità scolastica. P. Ottavio e P. Giorgio fanno veramente dei salti mortali per aiutare tutti i ragazzi.
Ora nella scuola si sta costruendo un “comedor” (una specie di refettorio-ristorante interno) per evitare che i ragazzi interni escano dalla scuola per andare a mangiare ed evitare quindi che vengano esposti a rischi di traffico o cattive compagnie. Anche in questo i nostri due Padri devono stare molto attenti. Come sapete la violenza è palpabile e le opportunità per portarla a termine non si cercano con il lanternino, ma sono quotidiane. Nonostante il tenore di vita sia basso, si trovano sempre i soldi per le armi, la droga, l’alcool che viene prodotto da qualsiasi cosa possa fermentare. E così spesso vediamo uomini buttati in terra abbruttiti dall’alcool, o, come è capitato a Romeo nei giorni scorsi, mariti ubriachi che in pieno giorno e sulla pubblica piazza puntano la pistola alla fronte della moglie (chissà poveretta cosa avrà combinato).
Riprendo oggi 22 aprile giovedì. Ieri siamo stati a trovare Suor Marcella a Sant’Elèna ed a consegnare un po’ di vettovaglie portate dall’Italia. Ci hanno accolto le bambine, tutte indistintamente ci hanno buttato le braccia al collo, lasciando i loro giochi o i loro compiti. Qualcuna mi ha fatto vedere i quaderni ed i libri, qualcuna i lavoretti con la carta, ma tutte si avvicinavano per una carezza. Come sapete sono tutte bambine che hanno grossi problemi familiari: ci sono anche sorelline portate via alle famiglie, figlie di genitori morti violentemente o figlie di mamme che non possono mantenerle perché abbandonate dagli “uomini”. Ieri una bimba di poco più di 3 anni ha buttato le braccia al collo a P. Ottavio: Suor Marcella ci ha spiegato che la mamma vive a Poptùn (100 Km. da Sant’Elena) e che solo poche volte all’anno riesce ad andare a trovare la figlia perché non ha i soldi del biglietto del “pulman”. La signora, nonostante sia dia da fare facendo tutti i giorni le pulizie nei negozi e negli uffici, guadagna 300 qutzales al mese (30 euro) e con quelli deve mantenere anche altri figli. Quando sento e vedo queste cose mi viene un malumore terribile; mi rincuora un po’ il pensiero che anche noi, dall’Italia, possiamo comunque contribuire a risolvere qualche piccolo problema.
I ragazzi di P. Giorgio, le comunità delle aldee, le vedove e gli orfani della Parrocchia di Dolores, le bambine di Sant’Elèna, i bambini dell’asilo di Poptùn hanno tutti bisogno del nostro appoggio, non solo materiale, ma soprattutto di quello morale. Possiamo offrire solo buoni esempi senza peraltro stravolgergli la vita. Penso sia un lavoro di pazienza che, come mi ha detto P. Mario, va seminato con la speranza che qualche semilla/seme attecchisca e cresca.
In questo periodo di permanenza quaggiù abbiamo sentito spesso parlare “de los italianos” quasi fossimo i risolutori dei problemi di Dolores e circondario. In alcuni casi abbiamo dovuto frenare questi pensieri per evitare che tutte le necessità venissero strumentalizzate a discapito di quelle più importanti. Dobbiamo cioè non cadere nell’eccesso di disponibilità nei confronti di chiunque. Ultimamente alcuni hanno “necessità” di una camara/macchina fotografica, quasi fosse indispensabile averla per sopravvivere (forse da quando Miguel, lo studente della scuola di P. Giorgio, l’ha chiesta a Francisco). Dire “forse” quaggiù è già un impegno che si deve onorare quanto prima e abbiamo imparato a stare molto attenti prima di lasciarci sfuggire qualche mezza parola che può far pensare ad un impegno irreversibile. Diverso è onorare gli impegni presi come quello della Chiesa di Sucultè: è facile dire che “los italianos” non hanno mantenuto la parola data perché qui rimangono P. Ottavio, P. Giorgio, Mons. Mario, Gigi ecc. ed è bene che loro siano salvaguardati in ogni modo e nulla vada a discapito della loro presenza. Per questo con Francisco abbiamo deciso di contribuire alla sistemazione della Chiesa di Sucultè: non abbiamo potuto ultimarla perché ci volevano ancora molti soldini e non eravamo preparati a onorare “promesse” non mantenute da altri, ma abbiamo tamponato una situazione che metteva “los italianos” sulla bocca di parecchi. Anche Roberto si è accorto di questa situazione e ne è rimasto molto addolorato. Alla fine devo dire che siamo stati molto contenti del risultato parziale ottenuto: tantissimi abitanti di Sucultè – venuti da lontano solo per contribuire con il loro lavoro - hanno collaborato fattivamente alla posa del pavimento. Abbiamo chiarito con loro che se anche loro si impegneranno a trovare i soldini e a lavorare, tutti insieme, prossimamente saremo sicuramente riusciti a finire i lavori. L’importante è che la gente capisca che si deve collaborare – loro e noi – alla realizzazione dei progetti, altrimenti la sola nostra partecipazione finanziaria per la risoluzione dei loro problemi è fine a se stessa. Il nostro impegno, sia economico che sociale, compartito con i Padri che vivono qui, vuole essere finalizzato al loro “desarollo/sviluppo” e più volte i nostri “ospiti” (i Padri) ci hanno detto che la gente non “crescerà” mai se continua ad aspettare la manna dal cielo e se non contribuiscono anche loro impegnandosi con il lavoro, la disponibilità ad imparare ed a mettere a frutto ciò che viene dato.
Abbiamo avuto conferma di questo modo di pensare anche da “El Profe”, un insegnante in pensione di Calzada Mopàn che, assieme ai figli anch’essi insegnanti, sta coltivando la terra, conseguendo degli ottimi risultati. Si è stabilito in questi luoghi durante la guerra civile e, come tanta gente in quel periodo, ha “usufruito” della terra di nessuno per crearsi un avvenire. Al contrario di altri però ha valorizzato la terra dedicandosi all’agricoltura ed ora anche ai vivai ed all’agriturismo. Non si è dedicato, come tanti adesso, all’allevamento del bestiame perché per fare ciò si deforesta sconsideratamente e non c’è un tornaconto economico poiché le bestie solo lasciate al pascolo brado, mangiano solo erba, non ingrassano e pertanto non hanno mercato. Inoltre – per tornare alla mancanza di impegno - fare l’allevatore in questo modo non fa spaccare la schiena come invece accade nell’attività di agricoltore. Cioè in questa zona l’impegno in prima persona non è la massima aspirazione guatemalteca…
A proposito di offrire: sicuramente i miei colleghi vorranno sapere della scuola di San Andres per la quale sono stati raccolti dei soldini. Ebbene devo dire che questi sono stati dirottati ad un’altra scuola nella quale pioveva dal tetto. P. Ottavio mi ha raccontato della scuola di El Pedregal (ricordate l’aldea dove è iniziata la faida a causa di una partita di pallone tra ragazzini !!). Il tetto è tutto bucato e a fianco dell’unica aula ne è stata “costruita” un’altra, con sconnesse assi di legno, dove il pavimento non solo non è in terra battuta ma è pieno di pietre affioranti. Poiché la scuola, come la chiesa, è intesa come centro aggregativo, si prende la scusa dei buchi nel tetto per non mandare più i bambini a scuola. E siccome è importantissimo che i bambini abbiano almeno un po’ di educazione scolastica, imparino ad avere degli impegni ed a rispettarli, specie in questo ambiente così degradato, mi è sembrato importante “togliere” le scuse e destinare la nostra raccolta alla sistemazione e all’ampliamento di questa scuola: unica condizione posta è che il tetto venisse rifatto con la lamiera (materiale utilizzato per qualsiasi tipo di copertura) e non, come prospettato, in eternit: posso accettare che i bambini possano soffrire il caldo o il freddo, non posso pensare che un domani possano ammalarsi di altro… Spero di essere riuscita a spiegare il motivo del dirottamento dei fondi. La scuola di San Andres, seppur povera, è in un comune, in un centro abitato, vicina al Sindaco, quella di El Pedregal è lontana e l’aria di violenza che si respira si tocca con mano: non potevo pensare che a qualcuno potesse venire in mente di togliere la scuola a questi bambini e pertanto ho operato questa scelta che spero sia condivisa e con la quale spero di non aver deluso nessuno.
Oggi 24 aprile siamo andati al Centro Poliformativo dove si svolgeva la giornata del Catechista. La riunione coinvolgeva più di 80 catechisti provenienti da 3 parrocchie. (Dolores, El Chal e Santa Ana). Tra riflessioni, prese di coscienza e animazioni la mattinata si è svolta all’insegna del consolidamento del “voler essere” catechisti. Leggendo l’opuscolo – in spagnolo – edito da Mons. Fiandri per l’occasione, mi sembra che essere catechisti qui sia un po’ più difficile che da noi, soprattutto per le difficoltà che queste persone trovano tutti i giorni della loro vita per far fronte all’ingiustizia, alla disonestà, alla fame, alla violenza, alla povertà soprattutto di spirito. Non è facile mantenere fede ai buoni propositi quando tutto ti va contro e pochi ti aiutano nei tuoi buoni propositi. Ci vuole molta tenacia e molto coraggio, ci vogliono anche preti coraggiosi – come i nostri – che diano fiducia e speranza alla gente, che li aiutino nelle loro incertezze e nei loro ripensamenti. Purtroppo ho avuto notizia che qui nel Petén non tutti i preti fanno il loro dovere (narcotraffico, amanti, ecc) e qui hai anche da combattere quotidianamente con la fame e la fame è una cattiva consigliera.
A metà mattino è stata distribuita la merenda: 2 tamalitos (involtini di mais con dentro una salsa piccante, cotti a bagnomaria nelle foglie di banana, e un “fresco” (bibita) di acqua di riso). Ho aiutato Sor Angelica nella distribuzione e sono tornata con il pensiero ai tempi passati (durati circa 9 anni). In questa occasione però c’era qualcosa di diverso: tutte le persone erano sorridenti, tutte ringraziavano, nessuno guardava nel piatto dell’altro per controllare se la sua porzione era meno abbondante dell’altra, tutti, al termine, hanno lavato il loro piatto e la loro tazza e hanno rimesso tutto a posto per riutilizzarlo all’ora di pranzo. Sono rimasta senza parole, ma compiaciuta e onorata di essermi messa al servizio di quella gente che, in quel momento, mi ha insegnato qualcosa.
Oggi a Flores 40 gradi, non si respira, Francisco gira con un asciugamano bagnato in testa, P. Alberto è rinchiuso in camera sua con il ventilatore sparato addosso. Franca ed io laviamo in continuazione la roba (a questo punto superpulita) per tenere le braccia al fresco.
Domani, 25 aprile (domenica del Buon Pastore) P. Ottavio è impegnato a San Andrés con il Festival dei giovani (è prevista la partecipazione di oltre 1000 ragazzi provenienti da tutte le parti del Vicariato del Petén- P. Alberto sarà impegnato a San Marcos dove si festeggia il patrono, verranno celebrati 2 matrimoni e si battezzeranno 10 bambini. Il Padre si è preparato molto bene perché deve tenere conto di tutte queste cose e deve enfatizzarle in modo opportuno; ha persino preparato i libretti per gli sposi (ragazzi che convivono già da diverso tempo, hanno anche dei figli, ma che vogliono regolarizzare la loro posizione), cosa non in uso da queste parti. Insomma il nostro vulcanico Padre lascerà un’ulteriore piacevole traccia del suo passaggio. Per ultimo P. Giorgio domani festeggerà i suoi 19 anni di sacerdozio: penso che gli farò compagnia in attesa di festeggiarlo tutti insieme domani sera.
Non credo che Vi scriveremo ancora perché lunedì andremo a scuola di P. Giorgio e ci congederemo dai ragazzi, poi dovremo cominciare a fare le valige perché mercoledì mattina (alle 0.6) prenderemo la strada per la capitale e per il nostro giretto prima di fare ritorno a casa. Grazie per averci seguiti, incoraggiati e sostenuti. Grazie per la pazienza che avete avuto nel leggerci, scusate se Vi abbiamo annoiati con le nostre considerazioni non sempre da Voi condivise (l’abbiamo saputo!!!!!!), ma credeteci questo era il nostro modo per invogliarVi a fare questo… passo. E se ci riusciamo anche solo con uno di Voi, per noi, come abbiamo già detto, sarà una conquista.
Cosa dobbiamo dirVi ???? Ognuno di noi ha dato quello che ha potuto con il cuore. Coraggio ora tocca a Voi, Hasta luego e al prossimo anno.
Baci. Rita y Franca