Riflessioni di Françoise dopo il ritorno 1
Missioni

RIFLESSIONI DI FRANÇOISE DOPO IL RITORNO
Soleminis, lì 27 marzo 2008
Non ho scritto un "diario", come richiesto da Padre Alberto, per due motivi: prima di tutto perché ero occupata a vivere intensamente la mia esperienza materiale e spirituale con le orfane di Santa Eléna e non volevo distogliere da loro il benché minimo istante della nostra intesa; il ché mi porta al secondo motivo: non ho condiviso l'esperienza degli altri membri del gruppo, impegnati nella casa, nella scuola di padre Giorgio e nelle aldee ed ero quindi incapace di seguire il loro itinerario. Questo scritto sarà dunque più individuale, più egoistico. Non so nemmeno se avrò il coraggio di consegnarlo perché rischio di esprimere più la mia interiorità abituale che l'esperienza di una scoperta e di una maturazione di cui non so neppure se sia, o no, avvenuta. Non vi voglio tediare con l'epopea aerea vissuta da me e Rita per arrivare a San Elena, con 24 ore di ritardo e grande ansia da parte dei "riceventi". Sappiate solo che, dopo diverse peripezie che ci hanno bloccate a Roma, sostate a Madrid, dirottate a San José di Costa Rica e fatte dormire a Città di Guatemala, all'arrivo all'aeroporto di Flores, ci aspettavano Suor Marcella e Olga. Appena entrate in convento assistiamo allo spettacolo inconsueto di 42 bambine (orfane e postulanti), sedute su panchine basse, in perfetto silenzio, che puntavano su di noi occhioni grandi e pieni di apprensione. Suor Marcella ci presenta e il silenzio sembra raddoppiare. Chiedo loro se vogliono saper cosa contiene la mia valigia. Mi arriva qualche mugolio di assenso a metà comprensibile e nient'affatto incoraggiante. Decido comunque di proseguire il gioco e chiedo forbici a Suor Marcella. Tagliata la plastica avvolgente, apro la valigia e comincio a chiamare i loro nomi partendo da Saida (2 anni) verso le più grandi. Peluches, bambole, bracciali, anelli, orecchini, trovano nuovi proprietari in un silenzio un pò attonito. Suor Marcella precisa che è un dono per loro e che possono ringraziare dando così inizio ad una gara di baci, strette, leccate (eh, si), parole gentili che andranno gonfiando a dismisura per tutto il soggiorno. Dopo la prima ora di entusiasmo, si va finalmente tutte a letto. Sono le undici e mezzo di notte. Il giorno dopo, lunedì 17 marzo, alle cinque del mattino, dopo una notte insonne a causa di stridori vari, camioncini che si smontano cigolando mentre tentano di andare avanti, moto che sibilano mentre sfrecciano in pieno centro abitato, vento che scuote le lamiere che fungono da tetto, fracasso di corse folli e miagolii vari su altre lamiere del tetto vicino (i dormitori delle bimbe), cesti della frutta del vicino (ahimé, oh quanto vicino) mercato rionale che scricchiolano dal troppo peso. Tento di rimettermi in sesto con una bella doccia... gelataaaaaaaa!

Ringraziando pure il cielo che quel giorno, perlomeno, c'era l'acqua corrente, visto che eravamo, ricoperte di polvere e intrise di sudore. Alle 10, quasi puntuali, arrivano Alberto e Ottavio per prendere Rita. Sono immediatamente attorniati da bambine esuberanti che li bombardano di domande, di coccole, di nomignoli e ricevono lecca lecca, carezze e bacini. Partiti loro, arriva il momento del pranzo. Le bambine mi hanno accettata facilmente. È sufficiente sedersi in mezzo a loro e chiacchierare con loro rispondendo alle domande più insolite e ascoltando le loro confidenze, a volte decisamente fantasiose. Subito fanno le fuse, pretendono coccole, cercano di attrarre la mia attenzione: "Guarda, guarda, Paquì come so nuotare. Guarda come so mettere la testa sotto l'acqua. Guarda come batto i piedi..." Si, perché suor Marcella ha comprato una piscinetta di plastica dove stanno a cinque a cinque, per turni di 20 minuti per un totale di due ore. Un tripudio di gioia. Mi colpisce la loro serenità. Gli occhioni neri che ti guardano sono pieni di fiducia, ansiosi solamente di ricevere affetto e parole dolci. I corpicini sono pienotti come i loro faccini. Sono ben sviluppate, ognuna secondo i criteri della propria razza. Le Quetchì tonde, tonde; le mezzosangue europee più longilinee e rigide; le africane magre e flessuose; tanti incroci e tante diversità. In mezzo a loro, un gattino selvatico che non sorride, non ti guarda in faccia, graffia e morde per un nonnulla: Anita, la "negretta", tenuta un pò alla larga a causa del suo caratterino pepato. Addotto Anita! Mi "comprometto" ufficialmente davanti a tutte, cioé le prometto di farle da madrina. Non ho più la gattina spaurita e "graffiante" davanti a me, non ho più nemmeno Anita: ho un raggio di sole. Il viso minuto è aperto come una melagrana su un sorriso sconvolgente, gli occhietti neri scintillano, il corpo magro si è raddrizzato e... una valanga mi butta le braccia al collo per un bacio mozzafiato. Dov'è il gattino selvatico? Sparito. E, fino alla fine del mio soggiorno, non è più tornato o almeno è solo per un breve attimo, quando una compagna l'ha chiamata "negrita" (il giorno dopo la "cerimonia") mentre rispondeva violentemente: "Non mi chiamare mai più così.

Ora sono Anita, la figlioccia di Doña Paquì." E vlan! Te lo sei cercato quando hai detto a tutte che Françoise corrispondeva a Paquita o meglio, a Paquì, per gli intimi! Il bello è che, ormai, tutte la chiamano Anita. Bel colpo Paquì! Il mercato di San Elena: il souk di Marakech era una reggia a confronto. Qui, non solo è stretto ma è anche surriscaldato perché l'intera zona è ricoperta dalle sempiterne tettoie in ferro ondulato che non lasciano passare l'aria, concentrano il caldo e moltiplicano gli odori forti della gente e delle spezie. Rumore, sporcizia, folla pressata, merci scadenti (abbondantissime e baratte), spintoni, grida, pesce salato, frutta esotica, riso e fagioli; sono strattonata da una parte all'altra dei 50cm che competono al mio andare dietro suor Cristina. Sono stravolta. Sto per svenire. Ma bisogna fare la spesa e non fare la donnina da quattro soldi, fragile e incapace. Qui tre melanzane raggrinzite in mezzo a fagioli rinsecchiti, patas (patate) piccole e rugose come visi di vecchine, fagiolini verdi appassiti, montagne di manghi e di papaie dalle mille sfumature del verde, giallo, arancio o rosso; lì, alcune banane iper macchiate o nere, qualche cipolla gialla, uno strano oggetto rotondo che assomiglia a un cavolfiore che ha preso troppo sole, una verdura strana che assomiglia a un grosso avocado e di cui scoprirò che ha il sapore di una zucchina e la consistenza di una patata lessa... Tutte queste cose sono riprodotte a centinaia di esemplari, in mezzo al fango della strada pestato da mille scarpe sporche. Neanche ai tempi nefasti della guerra di Algeria, era possibile vedere in Francia uno spettacolo così misero: commercianti cenciosi appoggiati ad un muro mentre guardano, indifferenti o minacciosi, questi stranieri che si danno tanto da fare a scegliere; bambini laceri ancora col moccio che ti sfrecciano tra le gambe col rischio di farti cadere; cani scheletrici che annusano i rifiuti radi negli spazi che dividono appena le tiendas le une dalle altre. Povertà, miseria e tristezza. Dove sono i nostri favolosi mercati rionali, francesi o italiani che siano; non chiediamo un mercato come quello delle Ramblas di Barcellona o quello del pesce di San Benedetto a Cagliari, ma un pò di pulizia, di colori luci, non opachi come questi, di grida allegre e invitanti e non di stridori di motori o del ritmo cadenzato dei passi della "Policia". Eppure, alla vista della veste bianca di suor Cristina, alcuni visi sorridono, alcuni bambini con gesti fiduciosi richiedono un sorriso ed una carezza. In contrasto con questa serenità, spessissimo ti fustiga il suono lacerante di una delle tante sirene che scandiscono la loro quotidianità. Polizia! Ancora e ancora poliziotti... che girano in continuazione. Su ruote questa volta. Dopo le tante pattuglie (7 o 8) a piedi, incrociate in circa 35 mn di spesa, sulla strada del ritorno verso il convento, e solo nella via principale (si fa per dire ancora una volta, visto la strettezza e le buche, ma almeno è asfaltata!), ecco arrivare due pick up con sei, otto vigilantes sul cassone. In Brasile, dove già mi ero scandalizzata, ho visto una concentrazione minore; si, erano molto meno numerosi. Questi qui sono appena degli adolescenti usciti dall'infanzia, diciotto anni forse, non di più. Bambinoni. Bambinoni con un mitra. Armi modernissime imbracciate con difficoltà e finta disinvoltura. Paura negli occhi per alcuni; spavalderia incosciente per altri. Bambinoni che al primo momento di panico possono sparare e seminare morte a catena nella folla pressata di un mercato.

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