Riflessioni di Françoise dopo il ritorno 3
Missioni

RIFLESSIONI DI FRANÇOISE DOPO IL RITORNO
Soleminis, lì 30 marzo 2008

La messa del Sabato sera (22 marzo, sabato santo) è stata ancora più bella di quella del giovedì. Più lunga anche, di circa un'ora! Una bambina è venuta a cercare rifugio nelle mie braccia sin dall'inizio e vi si è addormentata. Si sveglierà solo col mio capitombolo (senza danno) al momento della comunione. Durante la messa, l'officiante celebra due matrimoni tra autoctoni che convivono rispettivamente da 19 e 39 anni e che hanno deciso di rientrare nella grazia all'occasione di questa Pasqua. Non sanno parlare in spagnolo. Sono intimiditi, impappinati, inadeguati. Uno urla le risposte, l'altro sussurra e non si sente, le parole ripetute non corrispondono a quanto letto dal prete, a parte il sì, una risposta sembra quasi sconcia. Nonostante tutta la buona volontà del sacerdote, fanno capolino alcune incongruenze comiche. Una delle donne in particolare provoca tra i suoi vicini una piccola crisi d'ilarità che il sacerdote, lungi dall'offendersi, sottolinea con bonomia inserendolo nello "spirito di gioia della risurrezione di Cristo". Seguono, più "classiche e ordinarie", le cresime (una diecina) e finalmente i battesimi (più o meno lo stesso numero) preceduti da una Presentazione ai fedeli riuniti che strappa l'ovazione dei partecipanti. Tutto questo spiega anche la lunghezza spropositata di quella messa non più serale ma notturna. Nella funzione della Domenica di Pasqua (23 marzo) che, viste le circostanze, va considerata decisamente breve, il sacerdote balla, canta e balla di nuovo, provocando una bonaria ilarità tra i fedeli. Il tutto in nome "della gioia della risurrezione". Non è di certo una messa compassata (mi ricorda le messe della Martinique o della Gouadeloupe). C'è felicità intorno a me: bambine col vestito nuovo vaporoso di fatine come nelle feste del secolo scorso (o del nostro Carnevale), fedeli tirati a lucido dal vestito se non nuovo almeno estremamente pulito, suore ipersorridenti e un pò svagate. Volontariamente, non ho ancora parlato della giornata di Venerdì santo (21 marzo), perché è stata una giornata particolare, una giornata densa di avvenimenti e di sentimenti contraddittori. Alla mattina, classica Processione del Venerdì Santo a Santa Eléna. Fine mattinata, partenza per Dolores con pranzo alla Casa della Missione. Di pomeriggio, cerimonia in un'aldea. Tutto da rivivere, meditare e riassaporare. Iniziamo dalla processione. Sono arrivata davanti alla chiesa, dalla strada larga a due corsie, dove stavano preparando "las alfombras", questi tappeti di segatura colorata che rappresentano scene della passione e che sono disegnati all'ultimo momento, sulla strada stessa, negli ultimi metri del percorso di rientro alla chiesa. Nell'ultima "alfombra", quella vicina all'ingresso e che ho potuto ammirare, la scena di Maria ai piedi della Croce.

Proseguo rapidamente, seguendo i canti (a dire il vero, piuttosto stonati) e raggiungo la processione nei pressi della Prima Stazione. È stata allestita davanti ad una casa i cui abitanti già avevano preparato un altare con lenzuola bianche e celesti, vasi di fiori e grossi ceri, posti su un tavolo davanti alla porta principale; con i bambini tutto attorno e la famiglia ricevente vestita a festa. Prima meditazione e prima decina. E si riparte. Il sole comincia, impietoso, a scaldarci. Gli "habitués" portano berretto o cappellino, le suore, il velo, alcune bambine e donne, le mantiglie bianche. Finite le preghiere, le "accolite" (leggere aiutanti) riprendono in mano le immagini sacre, il rivestimento specifico dell'altare e, tutti, si riparte. M'incuriosisce il fatto che i simulacri non siano più portati sulle spalle dai maschi, come per la prima parte del percorso, ma su spalle femminili. Non oso chiedere, e proseguo con le "mie" bambine aggrappate chi ad una mano, chi all'altra, chi invece all'orlo della mia gonna. Non so se ridere o commuovermi di tanti segni di affetto. Di tanto in tanto, mi libero per filmare una scena, ma la mia corte non è mai lontana e non appena sentono il clic della chiusura, riprendono di prepotenza il loro posto al mio fianco. Seconda Stazione, secondo Mistero, seconda decina. Altare pronto con famiglia attorno tutt'agghindata, persino i cani sembrano meno spelacchiati. Il sacerdote dà nuovamente l'ordine alle "accolite" di recuperare gli oggetti sacri e si riparte. Stavolta sono di nuovo i maschi che portano il pesante fardello. Il calore si fa sentire sempre più forte. Il sole picchia quasi a picco. E sono solo le dieci! Pensare che ci sono otto Stazioni e che siamo solo in direzione della Terza. Uno dei momenti più intensi della Processione fu quello dell'incontro tra Maria e suo Figlio. I due simulacri si fronteggiano da lontano. Un incrocio li separa. Le due macchine della Polizia che fino a quel momento ci precedevano, bloccano le due strade perpendicolari alla processione. Il baccano prodotto dal motore del gruppo elettrogeno copre i canti. I portatori si fermano. Il motore anche, finalmente. Di fronte a me, la statua di Maria, sulle spalle delle donne, ondeggia ma non avanza. Quella di Cristo fa un passo avanti. Di fronte anche si fa un passo avanti. Altra sosta ondeggiante da ambedue le parti. Un altro passo. Un'altra esitazione. O forse è il peso di tutti i peccati del mondo che rallenta tanto il procedere del Figlio verso la Madre, del Cristo verso l'esito finale di questa Sua Vita Umana? La simbologia è forte. La tensione dei fedeli lo è ancor di più. Il silenzio è rotto solo dal cinguettare timido di alcuni passeri che sfrecciano, neri, in un cielo di un blu intenso, o dal latrato lontano di uno degli innumerevoli cani randagi. Anche qui si potrebbe riflettere sulla nostra natura errabonda e debole. Passo passo, tra esitazioni e fatica, i due simulacri s'incontrano davanti all'altare preparato per la preghiera. Il canto del sacerdote si eleva, struggente come struggente è la preghiera alla quale tutti partecipiamo, conscia, per quanto mi riguarda, della solitudine di queste bimbe che sono incollate a me, del loro bisogno di amore e di protezione. Difficile, se non impossibile (ma anche indecoroso), rivelare i mille sentimenti che s'intrecciano e si combattono. Non li dimenticherò, questo e certo! Mi aiuteranno a "santificare" la mia vita? Chi lo sa.
Alle 11, con suor Marcella, saliamo sul "rotativo", sorta di risciò a motore (apiscedda!), e filiamo verso il convento. Facciamo appena in tempo ad entrare che suonano alla porta principale. È padre Ottavio. Afferro il mio bagaglio e salgo sul pick up. Appena usciti da Santa Eléna, incappiamo nel primo blocco stradale e quando parlo di blocco non è una metafora. Grossi massi, di un metro e più di diametro, creano un percorso da gimcana (come avranno fatto a portare simili macigni in mezzo alla strada?) lungo almeno cinquanta metri: chi mai riuscirebbe a scansarlo... Padre Ottavio non si turba: rallenta, saluta due di loro, prosegue la sua strada. Dopo altri quindici/venti chilometri, stessa scena. Non commento, non chiedo ma sono perplessa. L'unica frase del padre: "Certo che non sono come i blocchi stradali in Sardegna". Al terzo blocco stradale, però, non resisto più e chiedo se è normale che ci siano tanti controlli. Anche Ottavio mi sembra perplesso e alla sua domanda, rispondono che cercano "robachicos", ladri di bambini. La spiegazione soddisfa il padre che mi racconta che, da qualche tempo, spariscono bimbi ai quali si rubano gli organi. È sparito da ieri un "muchacho". All'arrivo alla Casa dei Padri, l'accoglienza è festosa: Rita è fuor di sé dalla gioia come se avesse ritrovato un'amica intima, Fabrizio e Francesco mi abbracciano calorosamente e Padre Alberto, ovviamente, mi sgrida perché non sono venuta prima. Tutto normale insomma. Francesco ha preparato una pastasciutta di quaresima che mi sembra migliore persino del miglior "foie gras" di casa mia. Dopo, le varie pietanze a base di mais, fagioli e riso a getto continuo, questo è, per me, prelibatezza e peccato di gola. A parte l'encomio - interessato da parte mia, per aver una seconda porzione -, devo dire che Francesco non se la cava male come cuoco! Dopo pranzo, riprendono il lavoro con il cemento. Poi ci si prepara per filare verso l'aldea dove si svolgerà la celebrazione. La mia colonna vertebrale urla di dolore per gli scossoni del pick up. La strada è infernale. Meno male che Gerald mi ha preparata per affrontare gli scossoni e "pour réparer des ans l'irréparable outrage". Mi sento un rottame. E questi qui che ridono e scherzano! Francesco prende tutti "in giro", e in "ciac, si gira" con la sua favolosa cinepresa. Fabrizio si è impossessato della mia (che ho ceduto ben volentieri, non sono portata per queste cose) e cerca (e riesce in parte) di fregarci nei momenti più personali. Rita che mi abbraccia e ride. Clima di allegria fraterna e di condivisione spensierata. Anche questo momento, lo devo incamerare nel mio borsone di ricordi!
L'aldea, Mopán Uno, è misera. E mi dicono che sia una delle più decorose!!! Sono spaventata quanto le ragazzine sedute accanto a me, alle quali prodigo sorrisi e parole incoraggianti. Occhi grandi e neri che mi fissano più con diffidenza che con paura. Visetti chiusi. Mani strette a pugno. Penso a Minù quando me la portarono. Picchiata, malconcia, sporca. Per addomesticarla ho speso diversi mesi. Chissà se questi bambini troveranno un giorno un asilo sicuro come Minù? Temo di no. Da noi, i rifugi esistono talora per i cani meticci (non sempre), ma per questi bambini, quali speranze? Domande, ancora e sempre domande senza risposte, e malessere per la nostra impotenza, per la nostra sterile "buona volontà". Una bambina si azzarda a rispondermi, incerta, con un sorriso appena accennato. Ringrazio per l'informazione e le dico il mio nome. Occhi spalancati per l'incomprensione. Preciso che significa Francisca o Paquita per gli amici. Il sorriso si fa più schietto. Questo è il momento scelto dalla suora missionaria per avvicinarsi a me chiedendomi succintamente "sa leggere?". Stupore mio. "Certo che so leggere. E chi non sa leggere?" Stupida Françoise. "Allora leggerà la prima lettura." "Chi? Io? Ma non sono spagnola." "Ma sa leggere quello che è scritto?" "Si. Penso di sì. Spero di si." "Allora, legga la prima lettura." "Va bene." E penso: "Speriamo bene... Già in italiano è tutto un poema, in spagnolo cosa succederà?" Leggo, m'impappino, sorrido (giallo, ben inteso), pronuncio meglio la parola incriminata e, come Dio vuole, arrivo fino in fondo. Ufff, posso tornare al mio posto. Come un cane bastonato mi rifugio tra Rita e la bambina di nome Francisca (come me). Ora tocca ad altri leggere Proseguono i soli tre missionari. Nella sua semplicità, la cerimonia e toccante. Lo spirito di fede, denso come smog invernale (a proposito, si è messo a piovigginare), si taglia col coltello... anche nei canti stonati e sfasati. La cappella, ornata di semplici lenzuola bianche, è più che spartana, addirittura misera... tre assi di legno, una tettoia in ferro ondulato, spifferi ovunque, sporcizia, ovviamente, lezzo di miseria atavica, tristezza degli occhi che ti divorano con, laggiù in fondo, appena accennato, un debole barlume di speranza non, si sa bene perché o di che! Solo la fede lo può spiegare ma non è senz'altro una luce di questo mondo. Se potessi, direi un sacco di parolacce, ma non cambiano nulla e avviliscono chi le dice. Allora silenzio, un silenzio che urla dentro di te, come un latrato dilaniante e impotente. È la fine della visita. Distribuzione di lecca lecca (Fabrizio, efficientissimo, ha provveduto), saluti affettuosi del Padre, saluti cortesi delle missionarie (una chiaramente orientale), risate con due bimbi e si riparte. Sobbalzati, strattonati, immersi nel fango che schizza ovunque, si ritorna a Dolores (nome predestinato, ma qui tutti i paeselli portano nomi di virtù, speranze, ideali o meglio utopie, viste tutte le circostanze ambientali e temporali) per la cena. Ma prima, gli uomini impastano un pò di cemento. Per stancare il corpo e permettergli di soccombere al sonno? Per realizzare realmente quelle famose panchine? Per ringraziare i Padri di aver permesso queste esperienze? Forse un pò per tutti questi motivi e per altri personali e segreti che appartengono solo a loro, come appartiene solo a me quest'impotenza, questa rabbia sorda che m'impedisce di fare... che cosa poi. Io la decisionista, la volontarista, la realista, sono K.O.
Sabato mattina (22 marzo), si va tutti alla scuola del padre Giorgio. Ho imparato ieri, discutendo l'organizzazione delle classi e dei programmi, che il nostro domenicano è decisamente in gamba. Prendiamo dall'inizio. Ieri sera, il padre era ritornato alla scuola con Fabrizio, dopo una breve sosta con noi, a chiacchierare un momento nel clima dolce amaro di questo fine giornata molto particolare per noi oggi. L'ingresso della scuola è quasi imponente, un bel portone in ferro si apre su un terreno chiaramente sportivo, sovrastato da una collinetta di cui mi si dice che è una sorta di museo all'aperto. Sono invitata a salire ma la mia innata pigrizia mi spinge a rifiutare. Allora "visita delle aule".
Ma prima la cappella. Semplice, quasi disadorna, minuscola. Senz'altro riservata al Padre e, forse, un paio di Docenti. L'aula delle lingue, semplicissima. Funzionale quella multimediale con i suoi computer variamente datati. Poi una quinta con soli banchi e cattedra, essenziale, rustica. Dopo, si passa in quello che è un dormitorio, con letti funzionali e con altri (i più recenti) accatastati in vista di un ampliamento, l'anno prossimo. Giro completo che finisce con la biblioteca e lo studio personale di Giorgio. Quest'ultimo è piuttosto rivelatore della sua personalità: non è giusto commentare ma potrete guardare. Termina la visita davanti alle attrezzature sportive. Brevi conversazioni alla spicciolata. Fabrizio ha fotografato e filmato l'essenziale. Inutile raccontare il ritorno al Convento di Santa Eléna.
Lasciare loro è stato difficile come lasciare le ragazzine ieri. Ogni movimento diventa uno strazio. Meno male, il percorso fino a Santa Eléna è stato senza sorprese. Grida di gioia hanno salutato il mio ingresso nella sala refettorio e molte sono venute a chiedere le ormai solite coccole. Dopo la cena, bisogna indossare il vestito buono per la cerimonia annunciata dal sacerdote. E domani trascorrerò "una domenica da Pasqua in Guatemala", Messa, pranzo, giochi e via. Tutto sommato più banale dei giorni feriali.
Oggi è lunedì 24 marzo. Domani parto. Chiedo a Suor Marcella di fare una cena all'italiana. Accordato. E siccome oggi riprendono tutte il normale servizio, preparerò anche il pranzo. Ore 7 sono già tirata a lucido. Lodi, preghiera, collazione e si parte. Prima tappa macelleria: un bancone di marmo in mezzo ad altri dieci, sotto le solite tettoie di metallo, un numero impressionante di cani scheletrici che leccano la terra battuta impregnata di odori, carni, frattaglie buttate sul bancone con alcune mosche che ronzano. Chiedo il prezzo della carne macinata. Pochi quetzales. Annuncio quanto ne voglio e la signora prende un piatto di alluminio dove si trova già una buona libbra di macinato. Protesto che voglio tutto fresco, macinato sotto i miei occhi e non carne con proteine vive. Dopo qualche protesta poco convinta, la macellaia mi annuncia che mi costerà qualche centesimo in più al chilo. Pretendo con garbo che venga sgrassato e snervato. Accordato. E macinato una seconda volta. Accordato anche questo. Perfetto. Allora la signora prende una busta nera della spazzatura (pulita certo, ma pur sempre della spazzatura), vi mette i nove chili di macinato, chiama il figlio e fa portare il tutto al convento. In seguito, vado al supermarket. Dopo un bel pò di discorsi per convincere la padrona a liberare un carrello affinché possa fare la spesa, parto all'arrembaggio. A me pelati, pasta, prosciutto cotto (intero), formaggio (intero), mandorle, peperoni, pomodori, uova, farina, latte, noce moscata, olio, matite colorate, bambole, hula op, erbe aromatiche, insalata verde, noci... il carrello sta straripando. Chiedo che mi chiamino un taxi. Un rotativo? No, un taxi, uno vero! Ma sono cari... sto per rispondere quando una voce maschile dietro di me mi chiede se non sono una dalle suore del Convento, mi ha vista in Chiesa con la bambina addormenta in braccio. Si sono io. Allora, visto che la sua signora ha finito la spesa e deve parlare con Suor Marcella, mi porteranno loro. Eccomi sulla maxi apiscedda, in mezzo alle sedie appena verniciate, le verdure appena comprate dalla signora, la mia spesa con gli hula hop che tentano la fuga. In equilibrio. Tento di fare una foto col telefonino. Non è male ma un sobbalzo me la cancella. Siamo davanti alla porta del Convento. Esce Suor Cristina che riprende a lavorare solo domani. Con lei, le postulanti che si prendono a gomitate. Devo essere un bello spettacolo! A due a due prendono i vari cartoni e li portano nella cucina esterna. Consegno i giocatoli a Suor Cristina e organizzo i pacchi. Suore e postulanti hanno invaso la cucina. Le tre suore rimaste cercano d'impastare come me la carne con uova, sale, pane grattugiato, noce moscata, erbette. Fatto l'impasto, due si cimentano con le polpettine nel sugo di pomodoro (due teglie per 7k di polpettine), io e l'altra prepariamo i quattro polpettoni in acqua, rosmarino, dado e tre gocce di vino bianco. Mentre il tutto cuoce, lavaggio e apertura pomodori (6kg), passare la polpa interiore, pane grattugiato, sale, olio, e riempire. Facile. Due immense teglie da forno. Sbucciare cipolle, svuotarle, tritare il cuore insieme alla rimanenza del gratin di pomodoro. Riempire la terza teglia. Aprire in quattro i peperoni, un goccio d'olio, sale, aglio, prezzemolo. Quarta teglia. Accendere. Un altro passo fatto. Togliere le polpette. Cuocere il riso. Preparare le quattro insalate. Pulire le papaie. È l'una. Tutte a tavola. Suor Marcella vuole vedere il risultato della cucina italiana sulle bimbe. Mangiano con appetito. Non rimane nulla. Perché non aggiungere uno dei polpettoni? Detto, fatto. Ma la fame scarseggia, ormai. Anche la frutta - generalmente presa d'assalto - ottiene poco successo. Forse sono sazie. Andiamo a mangiare anche noi. Il riso si è un pò scotto ma pazienza. Non deve essere male perché finisce tutto in un battibaleno. Persino le postulanti ridono quasi di gusto insieme alle altre.

Arriva la sera, Padre Alberto e gli altri non sono arrivati. Mi avranno "posé un lapin" (tirato un bidone) o è un semplice ritardo? L'uno e l'altro, perché dopo due ore di attesa, arrivano in due Ottavio e Alberto. Fabrizio e Francesco hanno preferito il cemento. Rita è in parte con noi, in parte a Dolores. Inizia la "fiesta de despedida". Tutti col piatto di carta in mano si avvicinano al buffet improvvisato. Non ripeto il menù, è scritto sopra. Con i piatti ben pieni, tutti a sedere. Si mangia, si beve coca cola, si ride... Hop, si passa al dolce, quattro o cinque crèpe a persona, un pò di frutta e via. Attesa. Cosa aspettano le bimbe cosi ferme sulle loro sedie? I soliti lecca lecca finali! Ma non ci sono lecca lecca oggi. Ci sono invece giocatoli. Matite colorate, bamboline, hula hop, evidenziatori, è una ridda di gridolini, di risate... "Padre guarda come faccio... Madre, a scuola di ginnastica hanno chiesto gli hula hop, me ne dia uno..." Il top è raggiunto quando Padre Ottavio arriva finalmente. Chiasso e divertimento prolungano la serata oltre l'ora solita e domani però bisogna andare a scuola. Domani però si torna in Sardegna. Sveglia alle 5 e mezza, tutti a lavarsi, vestirsi, fare colazione prima dell'arrivo di Olga. Qualche strusciata furtiva, qualche bacino veloce poi tutti sul pulmino. Prima accompagnamo noi le bimbe a scuola e poi, via, all'aeroporto. Le solite lacrime commosse delle separazioni.

sommario